Piatti: «la crisi del tennis italiana era figlia della nostra propensione a cullarci negli aiuti di Stato»

L'intervista al Corsera del coach di Sinner: «Nessuno considerava l'impresa privata. A casa mia 'statalismo' era una brutta parola. In Italia ci si culla troppo sulle Federazioni"

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2020 archivio Image Sport / Sport / Tennis / Jannik Sinner / foto Imago/Image Sport

Riccardo Piatti per poco non ha scatenato una nuova guerra dei Balcani. L’allora coach di Ivan Ljubicic, croato di origine bosniaca, anno 2005, dovette rinunciare al giovanissimo Djokovic, serbo. “Volevo aggiungere alla mia squadra qualche giovane da formare. ‘C’è questo ragazzino…’ mi disse un amico. Numero 250 del mondo. Lo avevo visto una sola volta. In Australia, dove aveva preso una stesa memorabile da Marat Safin, 6-0 6-2, 6-1. Questo per dire che non si deve mai giudicare in fretta. Siamo stati insieme per un anno e mezzo. Non potevo sdoppiarmi. In più c’era un problema. Ljubicic è croato di origine bosniaca, è serbo. La guerra nei Balcani era finita da poco, e in quei due Paesi certe cose pesano ancora molto”. 

In una bella intervista a Marco Imarisio sul Corriere della Sera il coach italiano più famoso del tennis racconta della sua nuova vita con Sinner alla “ricerca del sacro Graal, il primo Slam”.

Soprattutto Piatti parla del suo distacco dallo statalismo italiano, da una mentalità che proprio non gli appartiene. Lui che si definisce monomaniaco:

“In questi lunghi anni di solitudine, diciamo così, mi sono sempre chiesto perché fossimo così bravi nel calcio, nel volley, in qualunque sport che non fosse il tennis, e dove stavamo sbagliando. Un approccio errato. Poca voglia di rischiare aprendosi al mondo, la nostra eterna propensione a cullarci negli aiuti provenienti dallo Stato, ovvero la Federazione, senza considerare l’impresa privata“.

“I miei genitori vengono da una terra di lavoro, che rifugge dagli aiuti statali. Mi hanno sempre insegnato a contare su me stesso. A casa nostra, statalismo era una brutta parola“.

Ricorda che un giorno la Federazione gli disse che presto non avrebbe più lavorato Furlan, Caratti, Brandi.

I risultati non arrivavano, ma io credevo in loro. A un incontro con i dirigenti della Federazione, mi venne detto che dovevo lasciarli andare, non sarebbero mai diventati professionisti e che presto avrei lavorato con altri giocatori. (…) Mi alzai e me ne andai. Quel giorno decisi di mettermi in proprio, con i miei ragazzi, trovando una casa tutta nostra a Moncalieri, diventando una specie di eretico. Hanno avuto quasi tutti una bella carriera, e ne sono orgoglioso».

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