Il Var ogni settimana riscrive il regolamento e ogni settimana dice che la regola è sempre stata quella (come Orwell)

Il Var è una riedizione del MinVer il ministero della Verità del romanzo 1984. A Open Var si esibiscono ogni volta in vere e proprie acrobazie logiche e linguistiche per convincerci che tutto procede tranquillamente

l'audio tra Di Bello e il Var

Italian referee Federico La Penna checks the Video Assistant Referee (VAR) during the Italian Serie A football match Inter vs Torino on November 22, 2020 at the Giuseppe-Meazza (San Siro) stadium in Milan. (Photo by MIGUEL MEDINA / AFP)

Chi ha una certa età si ricorderà certamente delle ataviche ed infinite discussioni sugli arbitraggi nel calcio, soprattutto a partire dal 1967, quando Carlo Sassi inventò, letteralmente, la moviola della domenica sera, con l’intento di stabilire se un rigore c’era o non c’era, se una palla era entrata oppure no.

La precisione dello strumento del rallentatore per decenni aveva illuso tifosi, commentatori e addetti ai lavori che fosse possibile, con un ragguardevole grado di precisione, stabilire a posteriori cosa fosse realmente accaduto in campo.

Non a caso un maestro del giornalismo televisivo come Aldo Biscardi divenne ben presto l’alfiere della battaglia per l’introduzione della “moviola in campo”, antesignana immaginaria di quello che oggi chiamiamo Var, Video Assistant Referee: un pool di ex arbitri e tecnici video che, con l’ausilio di innumerevoli telecamere, vaglia alcune decisioni arbitrali per poi confermarle oppure invitare l’arbitro in campo a ripensarci.

All’epoca della sua introduzione (il primo utilizzo risale alla stagione 2017/18, guarda caso con un rigore assegnato dal VAR al Cagliari contro la Juventus) l’entusiasmo era più o meno unanime e le pochissime voci contrarie erano fondate sulle pause imposte dalla revisione video, soprattutto dopo la segnatura di una rete. In pratica il Var era accusato di interrompere le emozioni.

Con il passare del tempo, però, l’entusiasmo ha lasciato sempre più spazio a dubbi, critiche e retropensieri. Uno dei primi a volerci vedere chiaro fu Carlo Ancelotti, che durante un Forum con gli arbitri chiese a Rizzoli “Ci dite chi decide? L’arbitro o il Var?”

Già, perché nonostante il protocollo delimiti la giurisdizione del Var a quattro casi (secondo il protocollo il Var può intervenire soltanto in caso di “chiaro ed evidente errore” o “grave episodio non visto” in relazione a rete segnata/non segnata, calcio di rigore/non calcio di rigore, espulsione diretta e scambio d’identità), esistono delle zone grigie che vengono interpretate dagli arbitri, dai Var e persino dai moviolisti (tra i quali qualcuno particolarmente zelante ha oramai assunto il ruolo di ancella dell’Aia l’associazione arbitri) ogni volta in maniera diversa e contraddittoria.

Ogni domenica ad Open Var, la rubrica su Dazn dove l’Aia viene a spiegare qualche caso controverso, concetti come volontarietà, tocco inaspettato, rimpallo, distanza, aumento del volume, movimento congruo, etc., vengono dilatati o ristretti a seconda della convenienza.

Così ci capita di sentire, per esempio, che durante l’ultimo Milan – Napoli su un fallo su McTominay non fischiato da Chiffi non è intervenuto il Var perché era “un episodio di campo che l’arbitro aveva visto e valutato”. Ma poi ci tocca vedere, durante Lazio – Torino della scorsa settimana, che su “un episodio di campo che l’arbitro aveva visto e valutato” il Var è intervenuto eccome e la Lazio ha avuto il rigore.

Per carità di patria (e mancanza di spazio) non parliamo delle mille sfumature di fallo di mano che abbiamo ascoltato in questi anni e delle diecimila ragioni che di volta in volta ci vengono snocciolate per giustificare l’intervento/mancato intervento del Var.

Ci vogliamo concentrare, invece, su due cose.

La prima è che, con tutta evidenza il Var è diventato un superiore gerarchico dell’arbitro: quando il Var chiama, l’arbitro obbedisce e praticamente mai conferma la decisione che aveva preso in campo.

La seconda è che il Var interpreta, di volta in volta, il famoso protocollo in maniera discrezionale.

Il combinato disposto di quanto sopra porta a dedurre che le partite vengono sempre più spesso decise al Var e che l’arbitro va via via perdendo di autonomia.

Ora, abbiamo seguito il calcio quando tutto dipendeva dall’arbitro, possiamo continuare a seguirlo anche se tutto dipende dal Var, ma una cosa non ci sentiamo di poter continuare a tollerarla: la continua riscrittura delle regole che avviene in diretta tv per bocca dell’Aia.

Sì, perché come un novello MinVer (l’organismo governativo responsabile della censura, della modifica della storia e dell’informazione, che nel romanzo 1984 provvedeva a riscrivere e alterare continuamente la realtà per farla coincidere con la narrativa del Partito e del Grande Fratello), ad Open Var l’inviato di turno dell’Aia si produce ogni volta in vere e proprie acrobazie logiche e linguistiche per convincerci che tutto procede tranquillamente, che il protocollo è rispettato e, soprattutto, nulla è cambiato rispetto al passato.

Volete un esempio? Nell’ultima puntata di Open Var l’ex arbitro Andrea De Marco, con il piglio di chi ripete qualcosa di arci noto e stra evidente, ha spiegato che, durante Inter – Cremonese, Lautaro Martinez in netta posizione di fuorigioco, talmente sulla traiettoria del tiro di Di Marco da dover saltare per far passare il pallone, non è in fuorigioco perché “negli ultimi anni il fuorigioco per essere punibile deve creare un impatto sul portiere”. Come possa non impattare sul portiere qualcuno che si scansa all’ultimo momento facendo passare il pallone è un mistero, ma non per Open Var, pardon: MinVar.

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