Fabio Capello e Pasolini: «Era una mente libera. Aveva problemi col Pci perché non era inquadrato ed era omosessuale»

Intervista al Messaggero nel cinquantesimo anniversario della morte: «voleva sempre che giocassimo insieme: io a centrocampo e lui all’ala sinistra. Gli piaceva fare il doppio passo alla Biavati»

Pier Paolo Pasolini in versione ala

Intervista a tutto campo di Fabio Capello sul Messaggero. Da Grado ai campi improvvisati, dalle partite benefiche ai dialoghi sulla tattica: l’ex ct racconta a Massimo Cecchini per il Messaggero il suo incontro con Pier Paolo Pasolini e il loro rapporto tra pallone e letteratura.

Quando vi siete incontrati?
«Nei primi anni Settanta, a Grado. Io, Riva, Reja: eravamo in parecchi ad andare lì per fare le sabbiature. Io avevo il ginocchio a pezzi e all’epoca quella era la fisioterapia per recuperare. Lo conoscevo per i suoi articoli e i suoi film, ma fu il calcio a fare da collante. Era un vero appassionato, del tutto disinteressato al fatto di giocare all’Olimpico o per strada. Stava ore a fare domande di tattica, a chiedere dettagli. Curioso, capace di ascoltare. Era piacevole, mite, quasi timido. Poi organizzava partite benefiche fra artisti e calciatori: in porta c’era Raf Vallone, poi Citti, Ninetto Davoli e tanti altri. E dopo si andava a cena, ore a chiacchierare.»

Della sua attività artistica, cosa le è rimasto più impresso?
«I film. All’epoca andavo spesso al cinema e non mi ero perso Medea, Il Decameron, Salò… Anche i film meno belli erano importanti, ed è un segno di valore. Erano semplici e autorevoli, e tenere insieme queste due cose è difficilissimo. Aveva la visione del fuoriclasse, di chi vede prima degli altri e poi viene copiato.»

Vi riconoscevate anche nella friulanità?
«Sì, nel modo di pensare molto rigido, diretto. Siamo gente di confine, e questo ti rimane dentro. Impari a convivere col dubbio senza mai essere conformista.»

Di lei diceva che, insieme a Boninsegna, era il calciatore con cui parlava più volentieri. Come giocatore scrisse: “adesso che è costretto a correre, Capello è diventato un grande. Il segreto del gioco moderno è l’esattezza massima alla massima velocità”.
«Esagerava un po’, ma voleva sempre che giocassimo insieme: io a centrocampo e lui all’ala sinistra. Era tecnicamente bravo e molto scattante, tifoso del Bologna, gli piaceva fare il doppio passo alla Biavati. Da ragazzo lo chiamavano Stuka, come l’aereo tedesco. Non aveva grande potenza, gli dicevo che i suoi erano tiri corsari, come i suoi scritti.»

Pasolini diceva che il calcio era “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”.
«Aveva ragione. Visto il seguito di pubblico, fu preveggente. E se guardiamo alla crisi del teatro e del cinema… Ma oggi, vedendo tutti i passaggi al portiere, inorridirebbe. Lui che amava il dribbling.»

E quando parlava di “calcio di strada come lotta di classe”?
«Una definizione poetica, ma quel tipo di calcio oggi manca davvero.»

Per Pasolini “il miglior poeta italiano è il capocannoniere del campionato”. Esagerava?
«Similitudini degne di lui. Ma una cosa è certa: la sua passione per il calcio era straordinaria.»

Lei, che politicamente è un conservatore, si trovava bene con un comunista anomalo come lui?
«Certo, proprio perché era anomalo, con visioni ampie. I suoi problemi col partito nascevano dal fatto che non era inquadrato, anche per la sua omosessualità. Era una mente libera. Non si truccava, in tutti i sensi.»

In tempi di social sarebbe stato preso di mira?
«Sicuramente sì. Lo avrebbero offeso. Ma ciò che conta è quello che ha lasciato: come regista, scrittore, uomo. I social passano, l’eredità resta.»

Crede alla versione ufficiale della sua morte?
«Non penso sia stato ucciso perché scomodo, ma ho sempre cercato di informarmi. E dei dubbi mi sono rimasti.»

Dacia Maraini ha scritto che nel calcio “Pier Paolo inseguiva un se stesso bambino che scappava”. Concorda?
«Forse non si sarebbe potuto dire meglio di così.»

L’ultima partita “vera” Pasolini la giocò a San Benedetto del Tronto, nel settembre del 1975, contro una squadra di vecchie glorie locali. La sua maglia, azzurra con il numero 11, fu adagiata sul feretro il giorno del funerale. Nessuno seppe mai chi la mise lì.

Correlate