«Ancelotti mi disse: per fare l’allenatore devi conoscere te stesso, sennò non puoi gestire le persone»

Claude Makelele si racconta ad As: «Mi ricorda Del Bosque. Parlano poco entrambi, a loro basta il loro modo di essere, inviano messaggi con il corpo e gli occhi».

Makelele

MG Zurigo (Svzzera) 17/06/2008 - Euro 2008 / Francia-Italia / foto Matteo Gribaudi/Sport Image nella foto: Makelele

Su As una lunga intervista all’ex centrocampista della Francia, Claude Makelele. Ha giocato nel Real Madrid e nel Psg. Oggi lavora con le giovanili del Chelsea, è direttore sportivo dell’Academy. Racconta il ritiro dal calcio.

«La chiave è che nessuno ti spinga a lasciare il calcio, perché quello è traumatico. Se hai forza e sacrificio, puoi giocare fino a 40 anni, ma se c’è qualcuno che decide di fermarti, è difficile passare a quell’altra vita. Ho smesso quando l’ho deciso io: ho visto che con la nuova generazione che stava arrivando era difficile condividere quella vita di sacrificio e di seria professionalità che avevo. E allora ho detto: “Ok Claude, basta”. Ho visto, non so, che ero circondato da persone che approfittavano del calcio per altro, ma che non volevano il calcio. E ho sempre amato il calcio, moltissimo. Certo, cercare di progredire, avere una bella vita e più soldi, ma amare il calcio…».

Quando ha lasciato era al Psg. Ha iniziato a collaborare con Leonardo, che era appena stato nominato direttore sportivo, ma la vita di ufficio non faceva per lui. Poiché Ancelotti aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse in panchina, Makelele rimase con lui. Racconta com’è stato lavorare con l’attuale tecnico del Real Madrid.

«Interessante. Ho visto un allenatore tranquillo, proprio quello che sta facendo adesso al Madrid. Con personalità. Sa gestire molto bene l’aspetto umano. Mi ha lasciato la possibilità di fare quello che volevo, di parlare con i giocatori».

Makelele racconta un insegnamento di Re Carlo.

«Mi ha detto: “Per essere un allenatore devi conoscerti, accettarti. Se non conosci te stesso, non puoi gestire le persone”. Ed è vero».

Ti ricorda Del Bosque?

«Tanto… Sono entrambi allenatori che parlano poco. A loro basta il loro modo di essere, con il loro linguaggio del corpo, con i loro occhi. È così che inviano i messaggi e tu sai esattamente cosa vogliono. Guidano le stelle e un giocatore di questo livello capisce tutto con poche parole. Uno comune deve dare molte spiegazioni».

Makelele parla di suo padre, giocatore in Zaire. Nel 1974 vinse la Coppa d’Africa. Nel suo Paese era una leggenda.

«E’ stato lui a spiegarmi cos’è il calcio. Lui, all’inizio, non voleva che giocassi. Conosceva i sacrifici che bisognava fare, il lavoro quotidiano, la durezza di prendersi cura del proprio fisico… E un padre non vuole che suo figlio soffra, o almeno lui lo intendeva così. È venuto a dirmi: “Claude, c’è una linea a partire dalla quale il calcio è lavoro. Devi dormire bene, non fare festa, mangiare bene, allenarti… Io volevo giocare e basta, non riuscivo a vedere oltre. Ma ha lasciato un segno tremendo su di me. E oggi gli dico grazie perché mi ha impedito di perdermi».

Ti sei pentito di aver lasciato Madrid? Makelele risponde:

«Sempre. Non volevo andarmene! Ma mio padre mi disse che dovevo farlo e forse aveva ragione. Amavo Madrid, lì c’era la mia anima. Ma l’ho ascoltato quando mi ha detto: “Claude, quando qualcuno, una persona o un club, non ti rispetta una volta, non ti rispetterà mai più”. È meglio che ti vendano, che ti vendano con calma… Mio padre aveva molta fiducia nel mio calcio. Si trattava di essere apprezzati. Non volevo soldi. A un certo punto il club mi ha detto: “Ti daremo altri soldi”. Era poco. E quando è arrivato il momento, all’improvviso, mi hanno detto: “No, no, no… Non ci sono soldi”. Avevano comprato Beckham e toccato un po’ di stipendio».

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