Sul Venerdì. «C’è poco senso di appartenenza. Il concetto di gruppo in una squadra attuale lo puoi anche coltivare, ma sarà sempre la metà di quello di una volta».
Il Venerdì di Repubblica propone un’intervista a Dino Meneghin tratta dal libro “La nostra America”, del critico televisivo di Repubblica e del Venerdì Antonio Dipollina. L’ex campione di basket degli anni ’70 si racconta, tra successi e rimpianti.
«Ricordo a memoria ogni sabato sera in cui i miei amici sono andati in discoteca e io invece ero in ritiro. Gli altri che facevano tre mesi di vacanza e io dieci giorni. E all’interno della squadra non si scherzava: c’erano i più anziani che ti richiamavano bruscamente a ogni tentativo di fare il fenomeno… Per fortuna non mi pesava. E un certo atteggiamento sfrontato me lo permettevo perché tenevo a essere professionista, e un po’ mi alleggeriva anche fatica e sacrifici».
Meneghin racconta il passaggio dall’allenatore Nico Messina («persona simpatica, che non faceva pesare più di tanto il suo ruolo») a quello ad Aza Nikolic, il vero cambio che aprì alla strada delle vittorie.
«Mise subito le cose in chiaro. Lui era il professore, noi gli allievi. O se preferisce, lui era un caporeparto in fabbrica e noi eravamo gli operai. Gli scherzi in allenamento? Guai. Solo un gruppo forte e compatto come il nostro a Varese poteva reggere questo e non solo, farne davvero un’arma vincente. Onestamente? Ci stava infinitamente sulle scatole. Ma alla fine abbiamo vinto tutto».
«Ci stava infinitamente sulle scatole. Ma alla fine abbiamo vinto tutto».
A Meneghin viene chiesto quale sia la differenza principale tra il basket di allora e quello di oggi.
«Tante. Ma proprio ricordando quella squadra, l’allenatore aveva il vantaggio di avere un secondo cervello in campo. Il playmaker. Oggi non lo trovi nemmeno a pagarlo, un tipo di giocatore così. Oggi prevale tutto il resto, l’atletismo, lo spettacolo, il tiro da tre punti accentuato come obiettivo. Guardo le partite, si recupera un pallone in difesa e si va in contropiede: prima della linea da tre, arresto e tiro. Ovvio, a noi sembra lunare, ma se le cose cambiano, cambiano».
«Il playmaker. Oggi non lo trovi nemmeno a pagarlo, un tipo di giocatore così. Oggi prevale tutto il resto, l’atletismo, lo spettacolo, il tiro da tre punti accentuato come obiettivo».
Un’altra.
«A me sembrano importanti, e lo noto subito ogni volta, il cambio spettacolare d’ambiente, le luci, i colori, i palloni. Noi avevamo il Voit e basta. Palazzetti un po’ così, allora: oggi sembra l’America ovunque, tutto coloratissimo. E poi sì, senso di appartenenza, oggi, pochino. Giocatori intercambiabili, il concetto di gruppo in una squadra attuale lo puoi anche coltivare, ma sarà sempre la metà di quello di una volta».
«E poi sì, senso di appartenenza, oggi, pochino. Giocatori intercambiabili, il concetto di gruppo in una squadra attuale lo puoi anche coltivare, ma sarà sempre la metà di quello di una volta».
Nostalgia?
«Mah, non è importante. Sono cambiati anche i tifosi, oggi sono molto più esigenti, vedono tutto, le partite nostre,
la Nba. Tutta un’altra musica».
Meneghin ha smesso a 44 anni.
«Il buon Dio e i miei genitori mi hanno dato un buon fisico. Io ci ho messo il resto, tenendo conto che ho sempre
giocato in squadre dove se arrivavi secondo avevi fallito. Quindi concentrazione e impegno, studiavo gli avversari, arrivavano gli americani forti e cercavo di imparare il più possibile. Qualcuno mi diceva: ma sei già Meneghin, chi te lo fa fare? Un bel niente, e più continuavo a giocare, più imparavo dagli altri. Quando ho smesso avevo ancora un anno di contratto ma il fisico mi ha consigliato seriamente di smettere».
Si può confrontare la popolarità del basket di allora con quella di oggi?
«Sono due cose completamente diverse. Oggi gli appassionati hanno tutto, ma devi essere già appassionato,
arrivandoci per altre vie che non siano quelle di allora: quando c’erano partite in diretta, trasmesse per intero su uno dei pochi canali esistenti, la pubblicità era clamorosa. Da quello che passa in tv e viene guardato da tanti discendono poi modelli, comportamenti, voglia di emulazione dei più giovani. Ricordo mio figlio Andrea una volta, ragazzino, vede una gara di marcia in tv e decide che vuole fare quello: per una settimana ha camminato come i marciatori. Poi gli è passata, ma è per far capire la forza di quel mezzo. Oggi al basket manca parecchio la prima serata tv trasmessa in chiaro, una volta si poteva».
Cos’è cambiato?
«Il calcio ha aumentato lo strapotere, la pallavolo si è presa spazi che ha meritato eccome, ma il basket forse non si è mosso in quella direzione preferendone un’altra».
«Il calcio ha aumentato lo strapotere, la pallavolo si è presa spazi che ha meritato eccome, ma il basket forse non si è mosso in quella direzione preferendone un’altra».
Uno dei suoi rimpianti?
«Non aver mai provato davvero per la Nba. Ero anche stato scelto dal general manager di Atlanta ma poi lui stesso mi spiegò anni dopo che non se ne fece niente per tanti motivi. Ed era un mondo che si conosceva poco, da noi arrivavano americani fortissimi che ci impressionavano ed era chiaro che al 99 per cento erano giocatori che la Nba non aveva voluto: quindi pensavamo a una dimensione davvero irraggiungibile e forse non ci ho mai provato con la giusta convinzione».