Cinquant’anni fa la tragica strage. L’azzurro a La Stampa: «Dopo, è stato tutto opprimente, anche nelle edizioni successive. Non è stata più una festa»
Il 4 settembre 1972, giorno della strage alle Olimpiadi di Monaco. Il commando palestinese “Settembre nero” fa irruzione nel Villaggio: uccide due atleti israeliani e rapisce nove persone della delegazione israeliana. Alla fine i morti saranno undici. La Stampa intervista il celebre cestista italiano Dino Meneghin che era lì, giocava con la Nazionale di pallacanestro. Racconta che quel giorno tutto è cambiato, non solo per quella edizione delle Olimpiadi ma per sempre.
«Onestamente non so più dire con che spirito siamo scesi in campo, di sicuro era sparita la bellezza. In quel Villaggio poi c’erano persino i teatri, i locali notturni e di colpo il silenzio. La mattina prima ti sedevi a colazione tra un cinese e un australiano e quella dopo ognuno tra le proprie tute. Per nazioni. Stretti. Una claustrofobia iniziata quando il nostro bus si è spinto contro il muro per lasciare lo spazio tra noi e i convogli con i fedayn in uscita. Un impatto a lungo termine».
Quattro anni dopo non avrebbe più potuto salutare i suoi genitori alla sbarra.
«Proprio no. A Montreal, nel 1976, era quasi opprimente. Polizia ovunque, metal detector a ogni spostamento minimo. Andavamo a giocare con la scorta con la mitraglietta».
E nelle edizioni successive che ha vissuto o visto?
«L’era della preoccupazione. A Mosca ’80 mancavano gli Usa; nel 1984, a casa i Paesi sovietici. E sempre più sicurezza ostentata e ansie nascoste. Solo ad Atene 2004, anno in cui ero dirigente, ho rivisto la calma. Non la festa di Monaco, ma il compromesso tra il bisogno di regole e protezione e il fascino di una Olimpiade. Oggi la tecnologia aiuta a gestire i controlli in modo meno invadente, ma quella libertà è rimasta là, al 4 settembre 1972».