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Grignani: «Ho una cazzo di paura di non esserci più, del perdermi, del diventare qualcos’altro»

Al CorSera: «In passato ho avuto collaboratori che mi hanno danneggiato molto. Sono scomparsi tanti soldi intorno a me»

Grignani: «Ho una cazzo di paura di non esserci più, del perdermi, del diventare qualcos’altro»

Il Corriere della Sera intervista Gianluca Grignani.

«Oggi finalmente ho capito che sono un artista, nonostante per anni abbiano fatto di tutto per farmi sembrare qualcosa d’altro».

Ammette di averci messo del suo, ma aggiunge che è accaduto perché per lui avevano ritagliato un ruolo ben preciso.

«L’ho fatto perché mi volevano così. Vengo fuori nel 1994 con Destinazione Paradiso e se i musicisti, quelli veri, apprezzano il mio talento, comincia subito la denigrazione dei media. Ha un bel faccino ma niente di più, dicevano di me. Sono sempre stato fuori asse: troppo bello per essere un rocker, troppo ribelle per essere un bravo musicista, troppo bizzarro per seguire le regole. Ma lei lo sa che dopo Destinazione Paradiso avevo deciso di smettere? Avevo capito che mi si chiedeva di essere un personaggio, ma io volevo fare altro. Volevo fare musica, sperimentare».

Racconta la sua infanzia: è nato a Precotto, nella periferia di Milano.

«Palazzoni di cemento, un campetto di calcio, una famiglia non facile. Papà se ne andò di casa e si fece una famiglia a parte, mamma fece di tutto per crescere me e mia sorella, ma a me l’affetto è mancato. Oggi, in fondo, capisco i miei. Li ritrovo nelle stesse ansie che ho io da genitore, in quella paura di non essere all’altezza. Ma non sempre loro mi hanno capito. Esempio: io volevo fare la scuola d’arte ma loro me lo impedirono perché, pensi un po’, erano convinti che lì giravano le canne. Non sapevano che io le canne avevo cominciato a farmele che ero poco più di un bambino e me le facevo altrove».

Dice che già all’epoca era un artista.

«Ero già un artista, la mia prima poesia l’ho scritta a sei anni, la prima canzone a tredici. Avevo la fissa di Elvis, ma ascoltavo anche Lucio Battisti. Il problema era che non sapevo come rendere concreto tutto questo. E allora la rabbia, l’inadeguatezza, i casini a scuola. Ho fatto tante scuole ma le ho mollate tutte. Quella in cui sono rimasto di più è stato l’istituto per il Turismo».

In ventisei anni di carriera ha venduto cinque milioni di dischi. Eppure viene ricordato sempre e soltanto per i suoi eccessi.

«Intendiamoci: io ho provato di tutto. E ho fatto di tutto. Ma perché additare sempre il Grignani ribelle quando la mia carriera dimostra che c’è dell’altro? Esempio. All’Arena di Verona, l’altro giorno, sono sceso tra il pubblico a dare la mano a un signore che cantava La mia storia tra le dita. Per me è normale, ma quando nell’inverno scorso sul palco di Sanremo, assieme a Irama ho fatto la rockstar, tutti hanno scritto semplicemente che ero ubriaco. Nella mia vita ci sono stati e ci sono dei momenti di nulla, lo so. Mi sono rifiutato di cantare in playback, qualche volta ho fatto cazzate come dare in escandescenze. Però nessuno parla del Grignani che legge Calvino o Pirandello. Del Grignani che conosce l’opera incompiuta di Kafka e che è in grado di fare paragoni con Dostoevskij. Del Grignani che ha debuttato con Destinazione Paradiso ma che poi, per fare Fabbrica di plastica, ha messo su un vero studio di produzione».

Racconta il giorno più brutto della sua vita:

«Io da solo in questa grandissima casa (una villa-studio a San Colombano al Lambro, tra Pavia e Lodi, ndr). Nel salotto, letteralmente aggrappato a una sedia. Aggrappato per non cadere in chissà quale abisso. Guardo fuori dalla finestra, un tempo uggioso, aspetto qualcuno. Non una persona particolare, qualsiasi persona. Ma passano le ore e non arriva nessuno. Non c’è nessuno e io mi sento solo come non mai. La separazione è qualcosa che fa male dopo un po’. E siccome io non ho stretti contatti con i miei genitori, quando mi sono separato ho sentito una solitudine dolorosissima, la consapevolezza di essere senza nessuno. Non ero in me quel giorno, è chiaro. Ma non era lontananza dalla realtà, era dolore».

Dice di essere stato circondato da persone che lo hanno danneggiato.

«Non sempre sono stato circondato da persone amiche e che hanno fatto i miei interessi. Non posso fare nomi, ma in passato ho avuto collaboratori che mi hanno danneggiato molto. Sono scomparsi tanti soldi intorno a me. Oggi scelgo con maggiore cura la mia squadra, ho un team fantastico. Ma lo sa che mi hanno ricomprato le chitarre? Me le avevano rubate. Per un musicista come me il furto delle chitarre è come la morte. Io poi ho alcuni pezzi rari, ci tengo molto, do loro dei nomi assurdi, ci vivo insieme. Un giorno me ne rubarono diverse e mi sembrò di impazzire. Qualche volta mi sembra di impazzire, sa? Forse è perché ho paura di non avere il tempo di riuscire a dire tutto quello che ho ancora da dire. E, mi creda, è tanto. Io devo ancora fare tutto».

Racconta di avere paura.

«Ho una cazzo di paura di non esserci più. Ma non parlo della morte. Del non esserci, del perdermi, del diventare qualcosa d’altro. È difficile da spiegare, gli artisti ci sono e non ci sono. Qualche tempo fa mi ero rassegnato: verrò capito solo dopo morto, mi dicevo. Oggi però so che non è così, che io posso vivere e fare ancora tanto».

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