Braida: «A fare la differenza nel calcio come nella vita, è il cervello, e quello non si giudica con gli algoritmi»
Alla Gazzetta: «Un algoritmo avrebbe potuto spiegare la personalità di Van Basten o Gullit? Quelle sono cose che deve valutare l’uomo»

La Gazzetta dello Sport intervista Ariedo Braida, direttore generale della Cremonese. Il tema è l’importanza degli algoritmi e delle statistiche nella scelta dei giocatori. Argomento di cui Braida si dico poco convinto.
«La matematica è una scienza e il calcio no. Il calcio è spesso approssimazione, si va per intuizioni, per genialate. Il calcio è territorio per artisti, mica per scienziati».
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«Io i giocatori li vado a vedere dal vivo e, con l’esperienza che ho, mi basta mezz’ora per decidere. Posso sbagliare, certo. Ma mi fido di più dei miei occhi che dei dati asettici riportati su una tabella. Gli algoritmi possono aiutare, perché forniscono statistiche, numeri, dati oggettivi. Ma poi dev’essere sempre l’uomo a decidere, a scegliere, a valutare».
Non tutto si può evincere dagli algoritmi.
«Secondo voi un algoritmo che cosa mi poteva dire di Van Basten, di Gullit, di Rijkaard, di Savicevic, di Shevchenko o di Kakà? Mi diceva quanti tiri in porta aveva fatto, quanti con il destro e quanti con il sinistro, quanti gol aveva realizzato di testa, come si era mosso. Sì, ma la personalità dove la mettiamo? E l’atteggiamento verso i compagni? E il comportamento con l’allenatore? Quelle sono cose che deve valutare l’uomo, il dirigente, il presidente, e non stanno scritte in nessun algoritmo».
Braida spiega come si sceglie un giovane potenziale talento.
«Generalmente si riceve una segnalazione dagli osservatori che compilano una relazione. E questa sì, al giorno d’oggi, magari si basa anche sugli algoritmi. Poi succede che il dirigente deve fare la valigia, prendere un aereo se stiamo parlando di un giocatore straniero e andarlo a seguire. Deve vederlo in allenamento, deve osservarlo in partita, deve conoscere la famiglia, gli amici. Deve sapere, insomma, che tipo di ragazzo è. Posso fare mille esempi di calciatori che erano potenzialmente dei fuoriclasse e poi sono spariti nel nulla. A fare la differenza, come in tutte le cose della vita, è il cervello. E il cervello non lo si giudica attraverso gli algoritmi, ma parlando con il ragazzo, con i genitori, con l’allenatore che lo sta seguendo, con i compagni. Questo è il metodo giusto. Faticoso, lo so, ma estremamente appagante».