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Branduardi: «Con la pandemia ho sofferto di depressione. Neanche la musica mi ha aiutato»

A Robinson: «Nell’arte c’è il paradiso e l’inferno. Nei primi mesi questa cosa che ero riuscito quasi sempre a tenere a bada si è acuita»

Branduardi: «Con la pandemia ho sofferto di depressione. Neanche la musica mi ha aiutato»

Il settimanale culturale di Repubblica, Robinson, intervista Angelo Branduardi, un cantautore piuttosto schivo, di cui si sa pochissimo che però ha pubblicato un’autobiografia per raccontarsi. Sarà in libreria il 31 marzo.

Racconta di essere nato a Cuggiono, in Lombardia, ma di essersi trasferito presto a Genova, in via della Maddalena, la strada delle prostitute.

«Numero 19, interno 5. Io da bambino ero un po’ il Piccolo Principe di quelle signore: mi piaceva tantissimo vivere lì anche se non avevamo nemmeno l’acqua corrente e c’erano tutti i muri cosparsi di polvere bianca, contro gli scarafaggi. Mia madre quando usciva non chiudeva mai la porta a chiave: c’era grande solidarietà e anche se eravamo molto poveri c’era un forte senso della dignità. Non potevo avere un’infanzia migliore».

Il suo rapporto con la critica è sempre stato controverso.

«Mi ha sempre definito un “anomalo”. Lo rivendico con fierezza: dopo dischi di grande successo ho fatto album che hanno venduto molto meno perché ho sempre seguito la “visione”, l’istinto, il mio piacere. Anzi, quando hanno voluto fare di me un idolo rock io ho proprio voluto cambiare strada».

Autore di testi di nicchia, come il disco su San Francesco.

«L’infinitamente piccolo: nessuno ci credeva. Me lo fecero fare perché in precedenza avevo portato molte vendite e così lo accettarono come si accetta una follia; però mi ricordo che un dirigente disse che al debutto, a giugno, avrei avuto venti clienti paganti in costume da bagno. Invece il teatro Smeraldo era pieno e fuori c’era così tanta gente che sono dovuti intervenire i carabinieri!»

Gli chiedono se è credente.

«A volte sì e a volte no, è una cosa molto privata. Un cammino, appunto, dell’anima. Non è un’autostrada quella che percorro ma una traiettoria piena di curve. Però sono un uomo con un’anima, una spiritualità e credo che questo si veda dalla musica che faccio».

Sul suo rapporto con il violino.

«Oggi non suono bene come una volta ma è anche normale: l’anno e mezzo in cui non ho suonato ha portato via molto ma pian piano sto recuperando. Con il violino si ha un rapporto fisico: è l’anima e la corda, non c’è mediazione, non è come con il pianoforte per cui schiacci un tasto e c’è un martello. Il violino è un prolungamento del corpo: la gente pensa che venga tenuto su dalla mano, invece sono il mento e la clavicola a farlo. È un modo di essere posseduti e di possedere».

Come mai non ha suonato per tanto tempo?

«Per quello che io chiamo “Sole Oscuro” e altri depressione: ero indeciso se raccontarlo ma siccome questa è e sarà la mia unica biografia ho pensato che fosse giusto parlare anche delle cose tristi. Nell’arte c’è il paradiso e l’inferno: non so il perché. Nei primi mesi della pandemia questa cosa che ero riuscito quasi sempre a tenere a bada si è acuita».

E neanche la musica è stata un aiuto in quei momenti?

«Assolutamente no. Ho dovuto poi recuperare l’agilità e alla mia età non è facile ma ci sono quasi riuscito e l’idea di salire sul palco è tornata a essere bellissima!».

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