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Virdis: «L’India mi ha cambiato, il calcio no. Seguo gli insegnamenti di Sai Baba»

Intervista al Corsera: “Mai pensato di diventare un campione. L’egoismo? Le grandi squadre le fanno la stoffa. Anche se non c’è armonia scatta qualcosa e vinci”

Virdis: «L’India mi ha cambiato, il calcio no. Seguo gli insegnamenti di Sai Baba»

Pietro Paolo Virdis, poco dimenticato bomber del Milan di Sacchi, adesso ha un ristorante-enoteca a Milano, che si chiama «Il gusto di Virdis» e gestisce con la moglie. Virdis, intervistato da Giorgio Terruzzi, lascia da parte le cose scontate e parla della solitudine e dell’egoismo, da attaccante e da uomo. Cita Sai Baba. Dice che “anche se parliamo di calcio, non credo che l’egoismo sia totalmente dominante. Il grande attaccante è anche quello che fa crescere un intero gruppo, quindi non penso debba guardare troppo se stesso, con la fissa di fare gol. Certo, è quello lo scopo principale, da lì viene una consacrazione. Facciamo così: 80% egoismo, 20% altruismo. Negli anni Novanta mia moglie ed io leggemmo di Sai Baba, ci incuriosì. Decidemmo di andare in India per vedere se i racconti su quell’uomo capace di fare tanto e bene per gli altri corrispondevano a verità. Beh, era tutto vero. Cominciammo a seguire i suoi insegnamenti. E di comportarci di conseguenza”

Virdis da cagliaritano doc non rifiutò la Juve come fece il suo mito Gigi Riva:

“Dovetti accettare di trasferirmi a Torino. Venivo da una mancata promozione in serie A e desideravo riportare in alto quella squadra. Avevo vent’anni ed era il mio sogno, alimentato anche da quanto aveva fatto Riva. Avrei voluto emularlo. Ma Gigi Riva era Gigi Riva, io ero un giovane che si affacciava sul palcoscenico e a un certo punto dovetti cedere. Non mi trovavo nella condizione di rifiutare e temevo di dover smettere di giocare. Pentito: all’inizio certamente, vennero anni difficili. Ma pensandoci oggi credo di aver fatto bene. Il tempo cambia le lenti con le quali guardi il mondo, ti guardi addosso”.

Virdis, calciatore quasi per caso:

“Un desiderio cresciuto lentamente, dentro di me, mettendomi alla prova, giocando all’inizio con i mei compagni di scuola nel campetto sotto casa e poi nelle squadre giovanili. Non ho mai detto o pensato: devo diventare un campione. Preferivo fare i conti con quello che avevo davanti, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Con un amore, questo sì, per il calcio, per ciò che cercavo di fare. All’età di 13 anni mi fecero giocare con quelli di 15, poi con quelli più grandi quando avevo compiuto i 16. E a 17 anni mi chiamarono in serie A. Tappe e crescita. Senza mai pensare: ecco sono arrivato dove desideravo”.

Di cosa è fatta una grande squadra?

“Dalla stoffa, in primo luogo, di ogni singolo giocatore. E poi da una condivisa, comune mentalità votata al raggiungimento del risultato. Può anche non esistere armonia tra compagni fuori dal campo se poi scatta qualcosa nell’imminenza e durante una sfida: identica fame, la stessa voglia di dare il massimo. Funzionano da stimolo reciproco e fanno la differenza”.

E cosa fa di un allenatore un grande allenatore?

“La duttilità. Per fare sì che ogni atleta renda al massimo. Magari basta un esercizio mirato, specifico. Oppure una frase, due parole pronunciate poco prima della partita. In questo era bravissimo Gigi Radice: sapeva trovare un tocco, il discorso perfetto per darti la carica. Ho ricordi preziosi di Nils Liedholm, di Mario Tiddia che mi accolse a Cagliari nell’80 quando chiesi a Boniperti, presidente della Juve, di farmi tornare nella mia vecchia squadra per ritrovare una sicurezza che credevo perduta. Tiddia fu fantastico, seppe guidarmi senza affrettare, senza forzare, ripristinando una condizione mentale perfetta. Tornai alla Juve l’anno successivo e vincemmo il campionato”.

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