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Claudio Santamaria: «Mia mamma amava la voce del Ridge di Beautiful. Così scelsi la scuola di doppiaggio»

Al Corriere. «Da piccolo mi chiamavano bell’addormentato. Mi perdevo nelle mie fantasie, chi sa dove andavo»  

Claudio Santamaria: «Mia mamma amava la voce del Ridge di Beautiful. Così scelsi la scuola di doppiaggio»

Il Corriere della Sera intervista Claudio Santamaria. Al cinema ha lavorato con Leonardo Pieraccioni, con Muccino ne “L’ultimo bacio”, nel 2016 ha vinto il David di Donatello come miglior attore protagonista per “Lo chiamavano
Jeeg Robot. Racconta come è arrivato alla recitazione.

«Mamma aveva la passione del doppiaggio. Amava la voce di Claudio Capone, il Ridge di Beautiful. Un giorno mi disse: i tuoi due fratelli non hanno mai voluto fare la scuola di doppiaggio. Risposi: vabbé, la faccio io».

Continua:

«Siamo intorno ai miei 15 anni, studiavo all’Artistico e sognavo di fare l’architetto. Vivevo al quartiere Prati di Roma. Oggi è una zona elegante, ma noi stavamo lì perché c’erano le case a equo canone. Papà era pittore edile. Quando incontrai Ermanno Olmi, ci scambiammo i diversi odori di casa: suo padre era ferroviere, sapeva di olio, di binari; io ricordo vernici, acqua ragia. Ero il più piccolo di tre maschi, stavamo sempre per strada, con masnade di ragazzini. C’era poco traffico, si giocava a pallone, a nascondino. Si viveva di fantasia e correvo sempre: corse intorno al palazzo, corse per qualsiasi cosa».

All’asilo la chiamavano «il bell’addormentato».

«Ho questo sguardo sognante, languido. Mi perdevo nelle mie fantasie, chi sa dove andavo. Una volta, a calcio, ero in difesa, numero tre, fanno il cambio campo e non me ne accorgo. Sento urlare dagli spalti: “A tre… devi anda’ de là”. Nelle estati in Basilicata, perché mamma era di Senise, coi cugini, vivevamo nei campi e disquisivamo sulle stelle, sul cosmo, su quello che c’era oltre. Avevo una capacità di astrazione che poi si è rivelata fondamentale nel mestiere».

Racconta l’esperienza del doppiaggio:

«A me il doppiaggio interessava perché era come giocare senza essere visto: ero estroverso, ma a volte andavo in una timidezza fuori norma. Pensavo che la scuola di doppiaggio si facesse in uno studio di registrazione, invece, mi ritrovo su un palco. Mi dissero: hai tre minuti per dire quello che ti pare. Dissi nome, cognome e restai in silenzio per due minuti e 45, imbarazzatissimo. Cominciammo un lavoro ispirato al metodo Stanislavskij, basato sull’improvvisazione. Siccome ero bravo a fare scherzi, capii che fare l’attore è come fare uno scherzo: se tu ci credi, la vittima ci crede, se sostituiamo la vittima con lo spettatore, è fatta. Scoprii che potevo portare qui i mondi in cui mi astraevo. Gridavo, piangevo, poi finivo e andavo a casa contento. Era salutare: agivo sulla rabbia che tenevo nascosta, non ero un ragazzino che si confidava, si apriva».

I personaggi interpretati restano sul set o se li porta a casa?

«Dipende. Per un dieci per cento, non lo lascio mai. Quando ho fatto Lo chiamavano Jeeg Robot ci stavo 24 ore, telefonavo, dicevo: “che voi? Oh, cia’…”. E mettevo giù. Un esercizio che t’insegnano a scuola di recitazione è giocare col personaggio nel quotidiano, dal macellaio, dal barbiere. Ora è più difficile: mi riconoscono».

Continua sui personaggi:

«Se non sai mandarlo via è perché c’è una parte di te che non hai accettato. L’attore è un esploratore dell’oscurità e deve saper tenere il filo rosso per ritrovare la strada».

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