Bertolucci: «Panatta ed io ci completavamo. E’ come se fossimo sposati dall’età di sedici anni»

A Repubblica: «Lui era troppo bello, io troppo normale. Io costruivo il punto, lui lo chiudeva con l’ultimo tocco e si beccava gli applausi. Non gioco a tennis dal giorno del ritiro» 

Bertolucci Panatta

Su Repubblica un’intervista all’ex campione di tennis Paolo Bertolucci, 70 anni il prossimo 3 agosto. Compagno di doppio di Adriano Panatta per oltre dieci anni, i due si sono fatti rispettivamente da testimoni di nozze. Sono sempre stati molto legati. Entrambi hanno la passione per il cibo. L’ultima volta, racconta, si sono incontrati proprio in un ristorante.

«Qualche giorno fa ero a Marina di Pietrasanta, cenavo in un ristorante all’aperto. Dunque, ero concentratissimo. Mi arriva una chiamata sul cellulare: è Adriano. Alza gli occhi, mi dice. Mi scruto attorno ed eccolo là, proprio nel locale di fronte a quello in cui sono io, meno di cinquanta metri di distanza. Ci sentiamo dall’odore».

La loro amicizia è cementata dalle reciproche debolezze, dice.

«Dalle nostre reciproche debolezze. Ci siamo sorretti a vicenda, forse completati. Lui era troppo bello, io troppo normale. Io costruivo il punto, lui lo chiudeva con l’ultimo tocco e si beccava gli applausi. Eppure ci siamo anche presi a botte, e parecchio».

Racconta i motivi per cui smise, nel 1983, ad appena 32 anni.

«Il dolore e la noia. Il nostro corpo ci parla. Mi svegliavo tutte le mattine con la schiena e le gambe a pezzi, ogni muscolo che bruciava. Ero stufo di preparare borse, prendere aerei, saltare da una stanza d’albergo a un’altra. Troppa solitudine. Eravamo stati dei pionieri, ma il tennis romantico era agli sgoccioli, persino il clima negli spogliatoi stava cambiando. Così nell’82 decisi che avrei fatto ancora un anno di circuito e poi basta. E programmai con metodo e in anticipo un altro giro. Contattai giudici, presidenti di circolo, maestri e raccattapalle che avevo conosciuto in tutt’Italia e chiesi loro di prenotarmi i migliori alberghi e ristoranti da Aosta ad Aci Trezza. Posti di cucina tradizionale. Mi misi in viaggio da solo e fu una liberazione, un orgasmo lunghissimo. Da Aosta ad Aci Trezza, promessa mantenuta: in un mese ingrassai di undici chili e due etti».

Nessun rimpianto, dice.

«Nessuno. Avevo cantato alla Scala del tennis, non mi andava, con tutto il rispetto per la provincia, di esibirmi un po’ bolso e spelacchiato nei piccoli teatri».

Dice che possedeva due talenti naturali:

«Il rovescio e la velocità di piedi nei primi tre metri, ero il migliore al mondo in questo. Ma quanto mi toccava affrontare partite sui cinque chilometri andavo in crisi, la mia autonomia durava un’ora o giù di lì, scoppiavo anche sul piano mentale. È la ragione per la quale ho fatto fortuna nel doppio».

I sacrifici a cui si è sottoposto nella sua vita di atleta? Risponde:

«Alla fame. Non esistevano tabelle nutrizionali. Mi ricordo che ci sono stati giorni nei quali bevevo solo due litri di pompelmo spremuto, mi pesavano ogni mattina come i pugili. Non potendone più proposi un patto a Belardinelli: per ogni partita che vinco in Davis voglio in cambio un piatto di pasta e fagioli con i maltagliati come premio. Accettò».

Ancora su Panatta:

«Qualche settimana fa non ne potevo più di vivere segregato, ho chiamato Panatta e gli ho detto: Adrià, vengo a Treviso a trovarti, preparami qualcosa da mangiare. Sa, è come se fossimo sposati dall’età di sedici anni».

Gioca ancora a tennis?

«Neanche per sogno. Mai più preso una racchetta in mano dal giorno del ritiro. E non mi chieda fotografie, ho buttato tutto».

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