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L’Italia del calcio scandalizzata perché c’è chi si impegna e gioca le partite, senza biscotti

Il Cagliari gioca col Milan, la Fiorentina col Napoli. Poi Lazio-Torino. Per noi lo sport è come il resto: complotti, accordi sottobanco, l’agonismo è un optional

L’Italia del calcio scandalizzata perché c’è chi si impegna e gioca le partite, senza biscotti

L’importante non è vincere, e nemmeno partecipare. È fare finta di. Piegarsi, lasciarsi andare, fottersene. E infine perdere, perché quei punti siano devoluti ai più bisognosi, chi lotta ancora per la Champions, per l’Europa, per la salvezza. Il calcio italiano è la palude della non-competizione agonistica, e chi s’impegna quando non è previsto che lo faccia, a gratis, è un nemico del popolo. E fa notizia come il padrone che morde il cane. Così il Cagliari che se la gioca col Milan è un bug di sistema. La Fiorentina che si frappone tra il Napoli e la sua qualificazione Champions è “assurda”. Persino all’estero questo weekend sportivo ha funzionato al contrario: una masnada di squadre senza nulla a pretendere che rompono le scatole a chi invece – in teoria più forte – si giocava ancora qualche porzione d’obiettivo. Vittime l’Everton, il Lille, ci è andato vicino il Liverpool che ha battuto una squadra già retrocessa con gol del portiere Alisson all’ultimo secondo, persino quasi l’Atletico che s’è tirato fuori dalle sabbie mobili con un colpo di coda.

Noi invece abbiamo chiuso con Lazio-Torino zero-a-zero. Che ha declinato questa metastatica anti-cultura pallonara in tutta la sua indecenza. Un groviglio di accuse di brogli incrociati, di complottismo vicendevole, di pesci in faccia miserevoli. Difficilissimo uscirne immacolati.

La premessa concettuale è inquietante: ci aspettiamo che il nostro avversario non si impegni, che ci lasci vincere. Lo pretendiamo, quasi, usando un metro morale sedimentato in decenni di “pastette”, “biscotti”, patti più o meno taciti. Pacche sulle spalle, occhiolini. Un codice omertoso, quasi mafioso: tu hai la classifica sistemata, fatti i cavoli tuoi. Già solo la speranza di avere vita facile sarebbe vile, per i romantici. L’altrosportismo suona sgradevole, ma gareggiare contro un avversario che non si impegna solitamente nello sport fa schifo per primo a chi vince – è degradante – e solitamente viene rinfacciato al perdente con ignominia. Nel calcio no: mettercela tutta è una medaglia al disonore. Come ti permetti?

C’è tutta una grammatica che tradisce questo stillicidio di cultura sportiva. Cairo e la dirigenza laziale allo stadio se ne sono dette di tutti i colori, mentre quegli infami dei giocatori biancocelesti provavano – tra l’altro senza riuscirci – a battere il Torino, “rischiando” di mandarlo a giocarsi la salvezza col Benevento. Una lesa maestà, un’offesa indicibile. Ma che fai, attacchi? Ma sei scemo?

Cairo – che non è un presidente di provincia, è uno dei principali editori di questo Paese – ricompostosi per le interviste post-partita, e rasserenato dallo 0-0 salvifico, va in tv e che dice?

“La Lazio ha dato tutto e ha fatto bene, complimenti, è giusto che sia così a prescindere dal fatto che Simone Inzaghi sia fratello di Pippo…“.

La versione in prosa della suddetta “zeppata” è: la Lazio ha provato a fare un favore al Benevento, non regalando a noi la partita (come in questa distorta visione dello sport sarebbe stato ovvio) perché l’allenatore della Lazio è il fratello dell’allenatore del Benevento. Mica perché sono professionisti pagati miliardi per fare una sola cosa: provare a vincere sempre, e impegnarsi allo spasimo per farlo… Siamo dalle parti del familismo a-morale. I due fratelli in combutta contro il povero Toro.

La mestizia, non bastasse, è arrivata successiva, come usa ora: sui social. Ciro Immobile, che per la cronaca ha tirato sul palo un rigore (marziano, che nemmeno i più arditi complottisti sanno spiegarsi), scrive su Instagram, tra l’altro:

“Al termine della partita di questa sera il Presidente del Torino Urbano Cairo mi ha raggiunto all’ingresso dello spogliatoio della Lazio iniziando ad offendermi, a scagliarsi verbalmente nei miei confronti rivolgendomi gravi accuse infamatorie, accusandomi di aver giocato la partita con “il sangue agli occhi”

“Non posso sorvolare su un episodio che oltrepassa la dimensione calcistica. Tutti sanno chi è Ciro Immobile; un calciatore, sì, ma soprattutto un uomo rispettoso delle regole e dei principi della lealtà. Non posso tollerare ingiurie ed infamie che diffamino, senza alcun valido motivo, la mia persona”.

Capirete che qui c’è un carpiato logico da districare: il presidente del Torino ha “accusato” Immobile di aver giocato col “sangue agli occhi”. E lui, Immobile, non è uno che si fa infamare così facilmente. L’impegno è una accusa, da cui – va da sé – difendersi.

La controreplica di Cairo, sempre su Instagram, è una poracciata da asilo nido. In sintesi dice che non fosse stato per lui Immobile sarebbe ancora un attaccante da poco, mezzo fallito (“mi ha telefonato e mi ha chiesto per favore di tornare al Toro. Io, che gli ero affezionato, l’ho accontentato”). Immobile l’anno scorso ha vinto la Scarpa d’Oro, segnando più gol di Lewandowski.

Tanto che poi arriva la nota della Lazio a sottolineare la follia generale: a calcio, ribadiscono, si gioca per vincere. Il resto non è sport. Monsieur Lapalisse, è un vero piacere.

Nel frattempo – a completare il quadro psichiatrico – Torino-Lazio aveva anche riacceso le polveri del complotto anti-meridionale. Perché, argomentavano gli ultimi facinorosi, era chiaro che la Lazio non avrebbe battuto il Torino sol per inguaiare il Benevento. Il quale – abbiamo screenshot di chat a supporto – non è retrocesso per essersi suicidato con un girone di ritorno allucinante, no: “ce lo hanno mandato, in Serie B”. Il Palazzo, eccolo là. Qui siamo alla fantascienza: prima gli arbitri, col rigore negato di cui s’è parlato abbondantemente, poi la congiura Lotito-Cairo. I quali non si sopportano, ma davanti all’obiettivo comune – nuocere al Benevento, ovvio – si sarebbero coalizzati in armistizio.

Il rigore alla Lazio, i pali, l’arrembaggio finale alla porta di Sirigu, la rissa dirigenziale… solo paraventi. Fessi noi, che ci caschiamo. Che crediamo alle favole. L’importante è trovare un’appiglio per dirsi vittime. Forzando la realtà a proprio uso e consumo, e continuando ad alimentare questo perverso meccanismo del non-gioco a procedere. Non solo bisogna farsi da parte, per non ledere il diritto divino degli altri di conquistare i propri obiettivi senza sbattersi eccessivamente. Ma tocca anche farsi il conto dei danni collaterali, fino al settimo grado di separazione sportiva. Un puzzle mefitico di bassezze, partigianerie, illusioni, ricomposto al contrario: fa notizia chi si impegna. La grande industria del calcio, la chiamano.

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