Ferguson: “Non capisco perché gli allenatori prendano appunti»

Intervista del Guardian al mito del Manchester United: "Mi hanno insultato per quattro anni, prima di vincere. Ho allenato anche con l'alta marea»

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Sir Alex Ferguson è i cantieri navali spettrali di Glasgow, la gioventù ribelle a Govan, il dolore e il settarismo che ha vissuto ai Rangers, il fuoco e la trasformazione che ha generato ad Aberdeen, quattro anni di insulti e la gloria duratura dei suoi 27 anni al Manchester United. Suo figlio, Jason, ha realizzato un bellissimo documentario sulla sua vita, partendo dal 5 maggio 2018, il giorno in cui una emorragia celebrale se lo stava portando via e per un po’ Ferguson rischiò di perdere memoria e voce. Il Guardian lo ha intervistato senza poter parlare, vietato per clausola contrattuale, del Manchester United attuale, della famiglia Glazer e della Superlega.

Ma Ferguson parla di tanto altro, ridipingendo il calcio inglese d’una volta e quel modo di intendere il mestiere – durissimo – che l’ha trasformato in leggenda.

“Come allenatore dipendevo dalla mia memoria. Oggi vedo partite in cui alcuni gli allenatori prendono appunti continuamente. Non l’ho mai fatto. Ho sempre dipeso dalla mia memoria. Non riesco a capire perché un allenatore dovrebbe prendere appunti durante la partita. Abbassi la testa per scrivere e ti perdi un gol, o un’azione…”

Ferguson parla delle sue radici scozzesi, a Glasgow, e sul fatto che lui e suo padre abbiano smesso di parlarsi dal 1961 al 1963. Ferguson giocava per il St Johnstone: “Mio padre aveva un piano per me come calciatore, con cui non ero d’accordo. Ha creato un abisso tra noi”.

Ferguson “usciva un po’ dai binari” e dalla prima squadra, usciva il venerdì sera. Quando suo padre lo sfidò a mostrare più disciplina, Ferguson ruppe. Andò in città, si ubriacò e finì per passare la notte in prigione, racconta.

Verso la fine di quel periodo tetro, cerca di saltare un’altra partita delle riserve. Convince la ragazza di suo fratello a telefonare al direttore e fingere di essere sua madre, e dire che aveva l’influenza. L’allenatore del St Johnstone contatta la madre di Ferguson.

“Era il venerdì prima della partita. Non avevamo un bagno a casa nostra, solo un gabinetto interno, così sono andato a fare il bagno con i miei compagni e sono tornato a casa alle sette. Mia madre era furiosa: ‘Vai a quella cabina del telefono e chiedi scusa!”. Ricordo ancora il numero: Stanley 269. Ho messo un fazzoletto davanti alla cornetta per far finta che avessi l’influenza. Mi ha sgamato. Ha detto: ‘Domani giochi contro i Rangers all’Ibrox’. “Ho segnato una tripletta che mi ha cambiato la vita”.

“Quella sera tornai a casa, erano solo poche centinaia di metri da Ibrox. Mia madre era tutta eccitata e papà lì seduto, come al solito, davanti al caminetto con il suo libro. Leggeva sempre. Lei mi dice: ‘Parla con tuo padre’. Io dico: ‘Che ne pensi, papà?’… ‘Sì, ok’.

Ferguson firma per i Rangers, e diventa il calciatore più costoso della Scozia. Ma i suoi due anni ai Rangers, dal 1967 al 1969, sono anni bui inaspriti dal settarismo.

Il racconto passa alla seconda vita, da allenatore. In panchina Ferguson fa un miracolo: vince in Scozia con l’Aberdeen, contro colossi come Ranger e Celtic. Porta a casa tre campionati, quattro FA Cup di Scozia (3 consecutive) e una coppa di lega. Nel 1983 il capolavoro: batte in finale di Coppa delle Coppe il Real Madrid. Ma non avevano un campo di allenamento. Usavano un parco locale, che avevano dovuto ripulire da cani e spiaggia.

“Ho dovuto telefonare alla guardia costiera per sapere gli orari della marea, per capire a che ora allenarci. I giocatori indossavano passamontagna e termiche perché, sulla spiaggia, c’erano -25 ° gradi e un vento gelido”.

Ferguson diventa l’allenatore del Manchester United nel novembre 1986. Prima di diventare un mito viene massacrato per quasi quattro anni. Lui e la sua famiglia.

“Ma stavamo facendo passi da gigante nel settore giovanile. Matt Busby negli anni 50 aveva ricostruito il club con fantastici giovani calciatori. Io volevo fare lo stesso. La gente pensa al Manchester United in termini di grandi giocatori come Ronaldo e Keane. Ma lo spirito di quel club ai miei tempi era quello dei giovani: Beckham, Giggs, Scholes, Nevilles. Sapevo che stavamo arrivando. Avevo solo bisogno del supporto del board”.

E dei tifosi. “C’era un gruppo di tifosi che veniva al campo di allenamento ogni giorno. Uno era un ex postino, Norman Williamson. Era un fanatico e continuava a dirmi: “Andrà tutto bene, figliolo. Stai facendo la cosa giusta. Erano fantastici”.

Norman Williamson, il postino, “il giorno in cui abbiamo vinto il nostro 19esimo, nel 2011, è venuto all’allenamento del lunedì mattina e ha abbracciato tutti i giocatori. Mi ha dato un leggerissimo abbraccio. Norman è morto quella notte, un uomo felice”.

“Per tutto il dicembre 1989 non vincemmo una partita. Così esce il sorteggio della FA Cup, terzo turno. Nottingham Forest. Probabilmente la migliore squadra di coppe del Paese, allenata da Brian Clough. Siamo andati lì e oggi per i tifosi sarebbe stato difficile ricordare la formazione perché avevamo un sacco di infortunati. Ma sai chi ha vinto la partita? I tifosi. Fu incredibile. Per tutta la partita hanno cantato e incoraggiato e abbiamo vinto. Lì è cambiato tutto”.

“Perdevamo molte partite, ma io ero sicuro che gli allenamenti andassero bene, che il mio rapporto con i giocatori andasse bene. Il presidente continuava a dire che era tutto a posto. Bobby Charlton scendeva dalle tribune e diceva: ‘Non preoccuparti, andrà bene’. C’era un sistema di supporto societario incredibile. Ma sulla stampa alcuni giornalisti erano cattivi. C’era questo giornalista – un rompicoglioni – che lavorava per il Sunday People. Quando abbiamo vinto la FA Cup nel 1990, mi disse detto: ‘Hai dimostrato di poter vincere una coppa. Ora torna in Scozia’ “.

Ferguson è cresciuto in una specie di Tana delle tigri e così ha cresciuto il suo Manchester United. La forza mentale era tutto.

“Allo United, tutti i migliori giocatori erano mentalmente durissimi. Ronaldo è duro come i vecchi stivali. Non poteva non diventare un grande giocatore, perché ce l’aveva in testa. Anche noi abbiamo giocato un ruolo in questo, perché Eric Harrison, l’allenatore delle giovanili, ai giovani rendeva le cose davvero complicate. ‘Se non hai forza mentale, non entrerai mai nella prima squadra dello United’, ripeteva continuamente”.

Il documentario raggiunge il culmine con lo United che vince il triplete nel 1999, con due gol segnati negli ultimi tre minuti al Bayern Monaco, ribaltando la finale di Champions League. Credeva davvero, a fine partita, di poter ancora vincere?

“Nessuna possibilità! Stavo pensando a quello che avrei detto ai giocatori… ‘Avete fatto una grande stagione…’. Ma poi l’abbiamo vinta. “Football? Bloody hell!”.

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