Intervista al preparatore: «Il Napoli di Gattuso ha pagato le gare troppo ravvicinate perché non aveva un’identità precisa come Atalanta, City, Atletico Madrid»
Da Napoli a Pechino, da Torino (con la Juventus) alla nazionale giapponese: Eugenio Albarella ha conosciuto il calcio ad ogni latitudine, seguendo la preparazione atletica di diverse squadre. Per questo ci siamo fatti guidare da lui nell’analisi di un calcio in tempo di pandemia, che cerca di adattarsi come può ai ritmi serrati e alle pressioni più frequenti che influiscono in modo decisivo sulla tenuta fisica.
Il Napoli è la terza squadra per chilometri percorsi in media a partita, con 111.899, dietro Inter e Lazio. Può considerarsi un indice di salute?
«No, nel modo più assoluto. Dobbiamo capire che negli sport di squadra sono diversi i parametri che danno indici di performance. Non si tratta solo di volumi di corsa, altrimenti sarebbe troppo semplice: basterebbe mettere in campo undici maratoneti. Il discorso è legato all’organizzazione, alla tattica, e altre componenti che vanno incrociate. Il voler parametrare a tutti i costi la prestazione così, a mio modesto parere – ma è opinione condivisa – diventa limitante.»
Sono dati che cambiano anche in base all’allenatore?
«Sì, l’Inter è la squadra che corre di più perché ha un certo sistema di gioco: le formazioni di Conte hanno sempre fatto più chilometri per coprire più spazi. Allo stesso modo, quelle di Sarri fanno registrare molto in questo senso perché li creano e li occupano. In ogni caso, gli stessi valori di corsa vanno analizzati considerando altri fattori come la potenza e l’accelerazione. Tanti vogliono far passare il messaggio che la prestazione si lega alla quantità, ma non è un’equazione valida.»
Senza le coppe, il Napoli disporrà di più giorni tra una gara e l’altra. Si può trarre giovamento da un punto di vista fisico?
«Nelle squadre di fascia alta, non è un problema. I loro dati non sono così differenti rispetto a chi magari non gioca ogni tre giorni. Questo conferma che ci sono altre componenti che contribuiscono alla prestazione del campo e che spiegano come a distanza di poco tempo si possano fare partite diametralmente opposte.»
In una precedente intervista, parlava della correlazione degli infortuni con l’aspetto nervoso.
«Ognuno di noi vive gli stadi emotivi in modo molto soggettivo. Avere la possibilità di allenarsi di più non è così tanto importante fisicamente quanto lo è da un punto di vista psicologico. Ci sono quelli che io definisco gli “animali da competizione” che gestiscono le competizioni e lo stress che ne deriva in un momento temporale definito “open window in game”: chi riesce ad aprire e chiudere queste finestre di pressione ha maggiore possibilità di rendere di più.»
Chi le viene in mente in questo senso?
«Messi, il Cristiano Ronaldo di qualche anno fa, Cavani. Giocatori che comunque hanno qualità superiori alla media. Pensiamo anche a Di Biagio e a Totti, ad esempio: il primo si presentò sul dischetto contro la Francia nel 1998 attanagliato dalla tensione; il secondo aveva già in mente di fare il cucchiaio al portiere agli Europei del 2000. Chi non è in grado di controllare lo stress, ha un scadimento. In definitiva, adesso c’è una maggiore possibilità di gestire meglio le proprie risorse.»
Esiste la possibilità di limitare l’impatto negativo della sfera emotiva con delle figure apposite?
«Premetto che è una questione molto personale, che varia in base alla forma mentis dei vari soggetti. Bisogna capire, estremizzando il concetto, quanti Di Biagio e quanti Totti ci sono in una squadra, poi dipende dalla struttura che una società si dà all’interno dello spogliatoio e gli ambienti stessi. Vivere i momenti di pressione che ha attraversato negli ultimi tre mesi il Napoli può portare a gestire questo stress in modo molto sofferto, passando da una fase acuta ad una cronica. Poi si creano squilibri ormonali, si abbassano le difese immunitarie, si è più esposti alle infezioni virali. Nel calcio di oggi è fondamentale la gestione degli aspetti nervosi, perché tutti coloro che lavorano in questo settore hanno le competenze per preparare bene atleticamente i giocatori.»
C’è una spiegazione al fatto che gli infortuni del Napoli si siano concentrati tutti nello stesso periodo?
«Ci sono correlazioni indubbie tra cattivi risultati e infortuni, gli studi di Uefa e Fifa l’hanno dimostrato. Il Milan, pur avendo avuto mediamente indici abbastanza alti di infortuni ed è la squadra che ha iniziato prima di tutti avendo i preliminari di Europa League, prima del derby aveva in quel periodo un solo indisponibile per problemi muscolari. Dopo quella sconfitta, gli infortuni sono passati da uno a cinque. Le tensioni incidono sulle omeostasi ormonali. Lo stato d’animo può diventare cronico, e aumenta il cortisolo, l’ormone dello stress. Quando ci sono stati tanti infortuni nel Napoli, i giocatori sono stati anche più vulnerabili al coronavirus.»
Il calcio in tempo di Covid ha costretto le squadre a fare una preparazione del tutto diversa rispetto al solito.
«Possiamo anche dire che non è stata proprio fatta, nella concezione classica del lavoro estivo. Già negli ultimi anni le strategie sono mutate. Negli ultimi anni è diventato un susseguirsi di competizioni, senza tempo di allenamento. Ora siamo all’apice di questo iceberg. Il Napoli ha finito l’8 agosto dopo la partita col Barcellona, dopo 15 giorni è cominciato uno pseudo-ritiro, dove poi gran parte dei nazionali se ne sono andati prima con le rispettive selezioni. Sia a livello fisico che organizzativo, l’allenatore ha potuto far poco.»
Nel caso specifico di Gattuso?
«Si tratta di identità nel lavoro e nell’addestramento in campo. Rendiamoci conto che è arrivato a dicembre 2019, tra gennaio e febbraio 2020 si è giocato ogni tre giorni, poi c’è stato il lockdown. Quindi si è andati in full immersion tra giugno e luglio. Ora il Napoli gioca in media ogni 3,3 giorni. Come ha potuto lavorare in questo modo?»
Si può affermare, dunque, che in una stagione normale il Napoli avrebbe fatto risultati diversi?
«Senz’altro. In Europa ci sono solo due squadre che hanno mantenuto un’identità ben precisa: l’Atletico Madrid e il Manchester City, perché sono due realtà dove gli allenatori sono da anni gli stessi. Per questo in Italia l’unica ad avere una situazione simile è l’Atalanta. Chi aveva già una storia di campo sedimentata, ha tratto vantaggio. Il crollo del Liverpool, che aveva dominato la Premier League, si può giustificare con il forte legame ambientale che è venuto a mancare con gli stadi vuoti.»
Immobile è il centravanti che corre di più, con 10.2 chilometri di media a partita. Osimhen e Mertens ne coprono rispettivamente uno e due in meno.
«Immobile ha capacità aerobiche incredibili, non è un giocatore d’area di rigore ma uno che ci arriva. Poi molto dipende anche dalle richieste tattiche, perciò non starei a sottolineare il chilometro in più o il chilometro in meno. Ci sono atleti che ne corrono pochi, ma poi il tabellino ci restituisce un’incidenza molto alta. I luoghi comuni dicono che la punta corra meno del centrocampista, ma ormai ogni atleta corre bene o male 10 chilometri a partita.»