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“Too big to fail” è il mantra degli illusi. Vale anche per il calcio

Prima del virus non eravamo il migliore dei mondi possibili. Altrimenti non ci saremo schiantati alla prima curva,. E andrà peggio a chi non vuole capirlo

“Too big to fail” è il mantra degli illusi. Vale anche per il calcio

“Un casino bollente dentro un incendio in un cassonetto all’interno di un disastro ferroviario”. Questa è la pacata descrizione del primo – e finora unico – confronto tra Trump e Biden fatta dal corrispondente CNN Jake Tapper.

È anche la descrizione che possiamo prendere a prestito per rappresentare quasi ogni ambito umano nel contesto degli ultimi mesi, ivi compreso il calcio.

Il presidente in carica Donald Trump ripete da molto tempo quanto tutto lo status quo istituzionale ed economico mondiale continua a sostenere: il ritorno alla normalità. Tutto andava a gonfie vele fino a qualche mese fa – Wall Street volava ai suoi massimi, il meccanismo del calcio era perfettamente in moto. Poi è accaduto l’imprevedibile – che per l’ex imprenditore statunitense è colpa di altri, nella fattispecie della Cina – e tutto è crollato. Il mondo era florido e felice, poi qualcuno ci ha messo il bavaglio e siamo piombati nel disastro di queste settimane.

Ma è davvero così? Ad una osservazione un po’ più attenta, sembra strano riuscire a dire che una economia in ottima salute possa andare in fumo per qualche mese di virus. È come dire che sedevamo in una supercar lanciata in rettilineo a quattrocento all’ora e non appena qualcuno o qualcosa ci ha costretti a fare una curva ci siamo schiantati su di un muro. A cosa serve una economia che sa andare solo in rettilineo? Quale pazzo può immaginare che non esistano varianti su di un tracciato? Fino all’ultima fatidica domanda: siamo sicuri che prima della pandemia eravamo nel migliore dei mondi possibili? – i record di Wall Street o le centinaia di milioni di euro per questo o quel giocatore sono gli indicatori giusti per stabilire che il sistema funzioni a dovere?

Il calcio vive in questi giorni in una propria bolla storica e culturale: ignora di essere il prodotto dell’uomo, una invenzione, una di miliardi di attività umane. Nell’universo anche il sole, ad un certo punto, smetterà di bruciare. Nel calcio, invece, i direttori di giornali, i presidenti di squadre, leghe, federazioni vivono nell’assunto che il calcio vivrà per sempre. Ebbene, non è così. Qualunque opera umana regge il tempo se la si cura, se ci si evolve, se si riesce a modificarla nel corso dei decenni. Un calcio che sa andare solo in rettilineo a velocità supersonica è destinato a morire, come ogni cosa umana muore. “Too big to fail” è il mantra degli illusi e, spesso, degli oppressori.

La realtà storica che stiamo vivendo ha alcune unicità indiscutibili. Questo è il primo momento, nel corso della vicenda umana su questo pianeta, nel quale tutto sta cambiando mentre ciascuno di noi ne è consapevole. Non è accaduto così nemmeno durante gli sconvolgimenti sociali che hanno attraversato Europa e resto del mondo nel secolo scorso. Uomini e storia si sono trovati sempre sfasati: i primi ad anticipare quanto ancora non era in essere, la seconda a scalciare l’uomo troppo lento nel suo adattamento. Oggi storia e uomini sono come un fascio di luce coerente: tutto sta mutando e ciascuno di noi ne ha piena contezza.

Ciò serve a dimostrare a tutti che indietro non si tornerà. Non torneremo a viaggiare in massa per un weekend nelle capitali europee a una manciata di euro a persona; non torneremo a visitare ristoranti e bar ad ogni ora del giorno e della notte e senza preavviso; non faremo ferie a tappeto affollando spiagge a prezzi irrisori o nulli; non lavoreremo più in uffici affollati timbrando cartellini tutti assieme alle otto del mattino; i ragazzi non frequenteranno più scuole sovrappopolate senza qualche giorno, settimana o mese di didattica a distanza. Ed il calcio, come lo vivevamo sino al gennaio duemilaventi, non esisterà più. Il mondo va dove gli pare, a prescindere da ciò che ministri, giornalisti, calciatori o procuratori possano pensare. Perché un sistema che non riesce a sopravvivere ad un rischio pandemico, domani, non potrà esistere, se abbiamo a cuore la nostra sopravvivenza come specie. E questo varrà sempre più di un derby, ci piaccia o no.

Ci sono tuttavia buone notizie. Mentre i candidati presidenziali se le danno di santa ragione (per quanto il fatto che dibattito tra Biden e Trump abbia sollevato l’indignazione americana dimostra che evidentemente nessuno negli States ha mai visto un talk show italiano) e il calcio crede di fare muro contro l’universo, c’è già chi sta mutando. Ci sono realtà economiche, produttive, sociali che si stanno attrezzando già da tempo per il “post”. Perché anche questa vicenda, come ogni cosa, avrà una fine. Il domani sarà diverso e chi ha investito oggi, mettendo soldi veri e sonanti, per cambiare processi, strutture, protocolli, contratti, sarà domani in netto vantaggio su quanti in questi mesi si sono improvvisati medici, hanno confezionato bonus su ogni cosa, o si sono illusi che un gentlemen’s agreement per evitare di fare il numero della ASL sia il trucco che ci vuole.

Chiunque non senta che la propria vita, il proprio lavoro, il proprio ambiente professionale e familiare, le proprie passioni stiano cambiando in modo irreversibile oggi, deve preoccuparsi, perché pagherà dazio a breve. Ed il prezzo potrà essere enorme.

Qualunque sia la nostra opinione, è un fatto che in occidente ci troviamo a far parte della generazione di esseri umani più viziata della storia: quasi un secolo privo di guerre senza aver contribuito a costruire un secondo di questa pace. Tutti – persino il presidente francese Macron – hanno chiamato “guerra” questa pandemia, con la puzza sotto al naso tipica di chi non sa cosa sia una mina antiuomo, una bomba a grappolo, il cibo razionato, un olocausto. Liliana Segre ha offerto quello che sarà il suo ultimo intervento pubblico tre giorni fa: chi l’orrore l’ha vissuto oggi è stanco. Il ricordo, col passare degli anni, si affievolirà in una testimonianza concreta, di carne e sangue, sempre più diluita e lontana. Rimarremo noi, con gli smartphone e la discussione sui cinquecento tifosi allo stadio. A gridare ogni giorno che siamo in guerra, per la sola ragione che l’orrore vero non l’abbiamo mai conosciuto e, pur di non cambiare, siamo disposti a illuderci che, barando, la faremo franca.

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