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L’azienda calcio è tecnicamente fallita

Dalla Francia sta partendo la slavina diritti tv. Il sistema non si regge più. Bilanci truccati. Dirigenti ignoranti e incapaci. La fuga dei giovani. Più che arroganti, i signori del calcio fanno tenerezza

L’azienda calcio è tecnicamente fallita

Lo scossone parte dalla Francia

È già successo che la Francia anticipasse all’Europa la caduta di un ancien regime. La storia, stavolta, non si ripete in forma di farsa; magari in sedicesimi. Non è il 1789. E non c’è traccia della borghesia che sta a muovere i fili. Anzi. Oltre due secoli dopo, stiamo assistendo alla crisi della borghesia. In questo caso nel settore calcistico.

Pochi giorni fa, il calcio francese è stato sconvolto dall’annuncio di Mediapro: il vincitore della gara dei diritti tv, che dovrà trasmettere la Ligue1 fino al 2025, ha lasciato che passasse la scadenza del 5 ottobre senza versare la rata dovuta di 172 milioni (in totale ogni anno devono versarne 780). Il patron di Mediapro, Jaume Roures, ha confessato a L’Equipe che non si è trattato di una dimenticanza. Mediapro vuole rinegoziare la cifra pattuita. Nel frattempo il mondo, e quindi anche il calcio, è stato travolto dal coronavirus. E, al contrario della propaganda che continua a pompare, l’interesse per il calcio è in forte declino. Mediapro puntava alla sottoscrizione di 3,5 milioni di abbonamenti. Al momento, secondo alcuni report francesi, soltanto 278 mila francesi avrebbero sottoscritto l’abbonamento da 25,90 euro al mese.

Il 17 ottobre, la Lega francese avrebbe dovuto distribuire ai club la somma incassata il 6. Al massimo, potranno incontrarsi per sorseggiare un pastis. La situazione è a dir poco ingarbugliata. Per ora, la Lega francese non vuole saperne di mettersi al tavolo di contrattazione. Qualora dovesse farlo e accettare un accordo al ribasso, sarebbe impossibile fermare il ricorso in tribunale di coloro i quali furono sconfitti nella gara che assegnava i diritti tv.

Qualcosa di simile sta avvenendo nel Regno Unito. Prima del virus, gli inglesi avevano altre abitudini. Lì non tutte le partite erano trasmesse in diretta tv: andare allo stadio era ed è considerato sacro. Ma adesso non si può. In un primo momento, i tifosi hanno ottenuto che tutte le partite della Premier venissero trasmesse in diretta tv. Ora, però, dopo quattro giornate di campionato, i club hanno deciso che questo servizio non può più essere fornito gratis. Ogni partita va pagata 15 sterline. Apriti cielo.

In Italia

In Italia siamo alla vigilia di una trasformazione storica: l’addio dell’esclusiva per l’assegnazione dei diritti tv. Una svolta che appena tre anni fa avrebbe provocato la sollevazione dei titolari dell’esclusiva. E invece non è successo niente. Quasi nessuno ha notato che da parte di Sky Sport non si è levata alcuna protesta. Sta bene anche a loro. Anche loro sono ben contenti dell’ingresso dei fondi e della formula che consentirà a ciascuno di acquistare i diritti e di trasmettere le partite. L’investimento calcio non rende. Non dimentichiamo che l’esclusiva della Champions, appena pochi anni fa, ha portato Mediaset sull’orlo dell’abisso.

Il filo conduttore è che la tanto strombazzata azienda-calcio non regge più. Ha vissuto a lungo al di sopra delle proprie possibilità e adesso il coronavirus ha messo impietosamente a nudo che il sistema non tiene. Il conto economico non torna.

Il paradosso dei tamponi

In Europa come in Italia. Lo spettacolo cui stiamo assistendo in questi giorni, è la strenua resistenza di chi si ostina a non voler far i conti con la realtà. Fin qui ci siamo soffermati sull’arroganza e la protervia dei signori del calcio italiano. Basta un semplice esempio: mentre nel mondo reale le persone si mettono in fila otto ore per sottoporsi a un tampone, i calciatori hanno protestato per l’eccesso di tamponi. Si sono battuti per farne di meno e lo hanno persino ottenuto. È impensabile presumere che questo abisso di privilegi non induca una sensazione di nausea nei confronti degli appassionati (che sono anche cittadini). Il calcio continua a muoversi sulla scena pubblica come se non ci fosse alcuna pandemia. Come se la principale preoccupazione delle persone non fosse questo maledetto virus. Senza dimenticare che il calcio ha contribuito alla diffusione del virus: Atalanta-Valencia e Liverpool-Atletico Madrid sono i due esempi più eclatanti.

L’altro lato dell’arroganza del calcio è la tenerezza che i suoi attori trasmettono. Somigliano sempre più alla protagonista del film Goodbye Lenin. Da Gravina a Dal Pino, da Andrea Agnelli e Roberto Mancini: questi ultimi due spiegano la pandemia come se fossero consumati virologi. Trovano ancora una platea disposta ad ascoltarli e a trattarli come divi. Ma non hanno compreso che si tratta di una platea giornalistica. Anche i giornalisti fanno parte del cast, sia pure nel ruolo di comparse. La base, il pubblico, comincia a scarseggiare. Abbandonano la sala, alcuni sdegnati. Il mondo della scienza li ha quasi sbeffeggiati.

Bamboli, non c’è una lira

Il calcio non ha più soldi. In settimana abbiamo letto dei bilanci di Juventus, Roma e Milan. Tra aziende che, se fossero “normalmente” sul mercato, dovrebbe solo portare i libri in tribunale. Il Milan ha chiuso il bilancio con una perdita di 195 milioni. Il rosso della Roma è di 242,5 milioni. Quando la società giallorossa ha comunicato ufficialmente il dato, il titolo in Borsa è stato fermato per eccesso di ribasso: meno 27,68%. La Juventus ha chiuso con un passivo di 71,4 milioni. Il club più importante del calcio italiano ha condotto una campagna acquisti all’insegna del “pagherò”, come al supermercato: prendi oggi, paghi domani e a rate. Vale per Chiesa (50 milioni) e l’americano McKennie (25,5). E ha persino varato una novità quasi assoluta per il calcio: l’acquisto in leasing, avvenuto per Morata. Dieci milioni l’anno al Real Madrid che però ne conserva il cartellino, più l’ingaggio da pagare allo spagnolo. Tutte operazioni all’insegna della disperazione, nella speranza che qualcosa possa cambiare.

Qualche settimana fa, sul Corriere della Sera, Dario Di Vico ha scritto che la legge Bosman sta ammazzando le società di calcio. Grazie a quella sentenza, “i calciatori sono riusciti a sommare i vantaggi del libero mercato con quelli del protezionismo, hanno uno status giuridico che li assimila ai liberi professionisti e però possono giovarsi delle tutele tipiche dei lavoratori dipendenti. Una pacchia”. E ancora: “il calcio presenta un paesaggio abitato da calciatori straricchi e società indebitate fino al collo. Il risultato è che lo show continua a rimpinguare i conti delle star e dei loro famelici procuratori, proprio mentre si prosciugano le casse dei club. Il business del calcio non potrà che essere riservato a chi dispone di risorse extrabudget come gli emiri o gli oligarchi russi. L’offerta non è tutelata, le ragioni dell’impresa sono finite sotto i tacchetti e un giorno o l’altro il sistema collasserà”.

Fare impresa senza seguire le regole dell’impresa

Quel giorno sembra sempre più vicino. Anche perché fin qui il calcio ha fatto finta che il mercato non esistesse. Il calcio si presume azienda quando si tratta di incassare e di far valere i propri privilegi; ma la conduzione di un’azienda impone anche il rispetto delle regole. Da anni, invece, i bilanci delle società di calcio sono alterati dal fenomeno delle plusvalenze. Trucchi contabili che gonfiano il valore di calciatori. Nel calcio non fanno più notizia. Il circuito calcistico è un ambiente ad alti livelli di omertà. C’è una pandemia ma l’Asl non va avvisata (Preziosi); ci sono evidenti alterazioni di bilancio ma nessuno li denuncia anche perché vi ricorrono tutti (nessuno escluso).

Il calcio ha scelto di essere un’impresa guidata da chi non sa nulla di come si gestisce un’azienda. Ceferin, presidente Uefa, è uno che ha fatto carriera nella federcalcio slovena. Come Gravina in quella italiana. Cresciuti e pasciuti in epoca di vacche grasse. Come potrebbero mai fronteggiare une delle più spaventose crisi economiche-finanziarie dell’ultimo secolo? Sono palesemente inadeguati.

Il calcio è nudo di fronte al coronavirus. La pandemia è stato come l’attentato di Sarajevo. L’incidente che ha fatto scoppiare il sistema, che ha reso evidente quanto tutto si reggesse su equilibri sottilissimi. In Italia si è aggiunto l’inghippo di Juventus-Napoli, col calcio che vuole provare ad affermare il principio che nel loro caso la tutela della sanità pubblica non è competenza delle Asl. Fanno tenerezza, appunto. In fondo, Gravina e Dal Pino sanno di essere né più né meno gli uomini cui la storia ha assegnato il compito di somministrare l’estrema unzione. Nessun istituto bancario garantirebbe un fido a un cliente come l’azienda-calcio.

Il calcio è sovradimensionato, i ragazzi preferiscono i videogame

Senza dimenticare che il consenso del calcio è in piena fase di erosione. Il calcio è sovradimensionato anche a livello mediatico. Da anni, i club più attenti al futuro avvisano che l’interesse per il calcio sta sensibilmente calando. I ragazzini giocano alla Playstation, a Fifa come a Fortnite, ma si annoiano di stare novanta minuti a guardare uno spettacolo che spesso ha ben poco di attrattivo.

Al proposito fu illuminante l’intervista che un anno fa concesse al Paìs Peter Moore direttore generale del Liverpool. Moore è stato uno storico stratega del marketing dei videogame. È stato lui il responsabile dello sviluppo delle console di Sega, Microsoft, Electronic Arts. È stato lui a dire che l’avversario del calcio è Fortnite.

«Ci contendiamo il tempo di attenzione dei giovani. Un tempo si era legati al momento in cui tuo padre ti portava allo stadio. Oggi non succede più e non perché i giovani non siano più legati al calcio. Ma perché, attraverso la connettività, l’offerta per i più giovani è più ampia. Possono fare molte altre cose nella vita. Oggi non c’è tempo. Nel dopoguerra, c’erano le carte e il football. Il calcio di oggi richiede ore di attenzione. Il bambino moderno ha la giornata parcellizzata: dieci minuti qui, quindici minuti lì. Tutti gli sport hanno questo problema, anche la Nfl. Oggi i ragazzi preferiscono rimanere nelle loro stanze a guardare i loro youtuber preferiti o giocare a Fortnite, a Fifa, a Impact Legends. Quando ero piccolo, ho interagito giocando a calcio perché non c’era altro modo».

Tutto sta crollando. E mentre questo sta avvenendo, mentre in tutto il mondo si sta discutendo se e quando tornare al lockdown, il commissario tecnico della Nazionale chiede che gli stadi vengano aperti. Mesi fa, disse che a calcio si poteva giocare perché i campi sono lunghi. Per rimanere al cinema, l’immagine di Norma Desmond, ormai fuori di senno nella sua villa decadente, diventa sempre più nitida.

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