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L’industria calcio vuole solo succhiare senza investire: così andrà a sbattere

L’ipotesi della bolla del pallone c’era già ad aprile, ma ancora oggi la deridono come infattibile. Intanto giocano ed esportano il contagio

L’industria calcio vuole solo succhiare senza investire: così andrà a sbattere

Trattandosi d’Islanda la metafora della punta dell’icerberg non è piantata in aria: stiamo esportando i nostri focolai, almeno quelli evidenti, all’estero. L’Under 21 ha portato in trasferta quattro positivi (finora) e le autorità islandesi hanno annullato la partita di qualificazione all’Europeo. Di più: ora gli azzurrini in quanto potenziali untori sono bloccati lì, le leggi locali non hanno un protocollo di cui preoccuparsi e non consentono a positivi di salire su aereo e andarsene. Non sappiamo se ci sono le Asl, in Islanda. Ma il buonsenso funziona così, un po’ ovunque. 

Nel calcio no. Lì ci si trascina con l’ossessione di dirsi coscienti e coscienziosi, darsi protocolli e regole. Ergersi davanti ad un microfono per raccontare con l’espressione marziale dei capitani d’industria investiti del fardello della sanità pubblica che il calcio sa come si fa. Ha il protocollo, il calcio.

Nel frattempo sette giocatori evadono dalla bollicina di massima sicurezza della Juventus, i nazionali partono per i rispettivi impegni in giro per il mondo, e i tamponi a ripetizione fanno scattare allarmi su allarmi. Tipo l’Islanda dell’Under 21. E se fosse troppo tardi?

Il calcio sta ragionando ora, in piena seconda ondata, sulla fattibilità del concetto di bolla applicata al pallone. Per lo più denigrando e deridendo a mani basse ogni prospettiva che non sia “chiudiamo a casa gli infetti, facciamoci la croce e andiamo avanti”. Il dilettantismo col fuso orario.

La bolla NBA è diventato un totem retorico. Piazzato lì come esempio di irraggiungibile gestione industriale dello sport in un momento di crisi epidemica mondiale. Ancora oggi se ne parla come di un progetto distopico, mentre i Lakers sono ad un passo dalla vittoria dell’anello, dopo tre mesi in ritiro blindato a Disney World. Quando abbiamo provocatoriamente scritto qui che la Serie A avrebbe dovuto rinchiudersi all’Isola d’Elba, non eravamo impazziti. In pieno lockdown, ad aprile, governo e lega ipotizzarono un “piano “capitale”: tutta la Serie A chiusa a Roma in un maxi-ritiro per concludere il campionato, in sicurezza, a porte sbarrate. 45 giorni di partite solo sui campi romani, in una enorme “sveltina” alla faccia del confinamento sociale. Sul tavolo c’era anche la sua versione light, più realizzabile, che ipotizzava centri sportivi “bunker” con le squadre in isolamento tra una partita e l’altra. Le attuali bolle di squadra.

Eccolo, il fuso orario. L’estate ha sciolto tutto, il dramma e le paure. I vertici del calcio si sono addormentati come i ragazzini che non hanno studiato e il giorno dopo hanno l’interrogazione di latino: sperando che nella notte la scuola finisse investita da un meteorite.

Seguendo la linea retta dell’irresponsabilità – la stessa che governo e regioni hanno seguito per la sanità, quindi perché farsene un cruccio – hanno preteso di aver risolto tutto stilando delle linee guida immodificabili. Senza investire un euro su un piano B. Senza re-inventarsi come tante aziende sono state costrette a fare per sopravvivere alla crisi del mondo che cambiava. La grande industria di granito, incapace di programmare. Ma capacissima di succhiare tutto il possibile, spremere il sistema pretendendo tutto e di più. Battendo i piedi istericamente in attesa che la mamma – il governo, la scienza, il virus persino – non s’arrendesse dinanzi a tanto pianto comprandogli infine il leccalecca.

Cosa c’era di così criptico in una rosa di 22 positivi che rischiava di contagiare a catena un intero campionato? Cos’è che il calcio non ha capito del focolaio-Genoa? Come ha fatto a non accorgersi della follia di far disputare Atalanta-Valencia o Liverpool-Atletico Madrid a porte aperte mentre l’Europa chiudeva i portoni tutt’attorno? All’Inter il conto dei positivi è salito a 5, il derby col Milan che ne ha tre è ancora in calendario, come se niente fosse.

Hanno per mesi contrabbandato l’accattonaggio di un sistema economico di porcellana per un discorso sui massimi sistemi industriali. Una ricorsa infinita al passante politico con la mano tesa, come gli instancabili venditori di calzini alla stazione. In una erosione puntuale delle iniziali regole d’ingaggio, piallate di volta in volta per arrivare al benedetto “protocollo” sostenibile: giochiamo e che dio ce la mandi buona. Il calcio è un pacco.

E ora che dal pacco spuntano mattoni non abbiamo ancora la forza di interpretare il momento, siamo indietro di settimane su un’eventuale tabella di marcia. Ogni squadra ha i suoi positivi, che gestisce in isolamenti “fiduciari” o ritiri di gruppo mentre i virologi, quelli veri, sbertucciano chi ha pensato una tale indegna gestione. Mentre i dirigenti s’accapigliano sulle carte bollate, i giocatori viaggiano, volano, si allenano, giocano e tornano a casa da mogli e figli. Non è catastrofismo dirci – almeno tra noi – che forse è troppo tardi. Che ormai è andata.

Magari esiste ancora un modo per porre un argine, per far funzionare il sistema salvaguardando la salute delle persone. Ma davvero ci illudiamo che lo trovino, adesso, questi piazzisti prestati al capitalismo?

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