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Perché la Serie A non si chiude in una bolla all’Isola d’Elba?

Come ampiamente previsto, Bergamo non ha insegnato nulla. L’NBA (industria vera) si isola. In Italia, invece, dobbiamo isolarci noi per far giocare loro a calcio

Perché la Serie A non si chiude in una bolla all’Isola d’Elba?

Prendi un traghetto, pieno zeppo di campioni e mezze calzette, diretto all’Isola d’Elba. Da Ronaldo a Galabinov, tutti belli distanziati, con le mascherine. Li sbarchi, e li lasci lì fino a quando non hanno giocato a calcio come da calendario. All’estero le chiamano “bolle”, da noi erano “ritiri” prima che i calciatori cominciassero ad ammutinarsi perché ledevano il loro diritto di essere padri presenti e mariti affettuosi.

Abbiamo passato una tarda primavera a rincorrere il dibattito su cosa fosse giusto fare, ammirando il lento decadimento di tutte le cautele iniziali, lo sfibrarsi di protocolli e linee guida. Era tutto un “al primo positivo si ferma tutto”. Invece poi al primo non è successo niente, e nemmeno al secondo e al terzo. E ora siamo alla prima supposta partita-contagio: Napoli-Genoa, con 14 positivi a tenere col fiato sospeso (ah, le metafore) due squadre di serie A, gli arbitri, i dirigenti e gli staff. E a catena le avversarie future e la tenuta stessa del giocattolo. Ma il presupposto è sempre uguale: non ci si ferma. Mai.

Lo scollamento dalla realtà, almeno da quella percepita, ha prodotto distorsioni epocali: Lebron James chiuso in un complesso alberghiero a ritrarsi mentre pesca trote in uno stagno artificiale, e fa colazione da vaschette monouso stile economy di lungo raggio, mentre anche il meno vip dei calciatori europei correva a farsi la meritata villeggiatura a Formentera. Per poi tornare a casa e scoprire – ma dai! – di essere positivo al coronavirus.

Il tennis, sport del distanziamento sociale per eccellenza, sta portando avanti un tour malridotto grazie a tante bollicine: ogni torneo un mondo a sé, con rigidissimi protocolli per isolare gli atleti dal contesto circostante. Alberghi di concentramento, con entrate e uscite contingentate, colazioni in camera, trasportation dedicate. In campo da soli, che più soli non si può. Ogni uomo è un’isola. Agli US Open come al Roland Garros, passando per Roma.

Ma il calcio no. Il calcio è “un’industria”. Mica come quei barboni dell’NBA, costretti nel confino di Disney World per terminare il campionato. Il calcio ha dapprima ventilato l’ipotesi – ma non c’è cascato nessuno – che la tragedia di Bergamo e delle province lombarde avesse insegnato a tutti il valore della vita, le priorità. Poi ha cominciato a impapocchiare il messaggio, sparpagliando risse tra club, governo e comitati scientifici. Con la pretesa di difendere il famigerato “indotto” hanno imposto la ripartenza, abbassando sempre di più l’asticella dell’attenzione. In un sistematico rimodellamento delle misure di prevenzione, e di perdita dei freni inibitori. Fatta quella, liberi tutti.

I calciatori sono salpati con gli yacht, tanto era agosto e almeno in Italia la pandemia era data per sconfitta. Il caldo, sai com’è. Al ritorno dalle ferie l’impazzimento generale, il bipolarismo: sulla stessa pagina di giornale è possibile trovare il dibattito sulla riapertura degli stadi al pubblico (“mille sono pochi, non bastano”) e “l’incubo pandemia”, con giocatori in quarantena, partite che saltano, ct della Nazionale che blaterano di epidemiologia. Vale tutto tranne il principio iniziale: c’è una pandemia in corso, persino in recrudescenza. Non si capisce davvero come – a parità di agente virale, mai ufficialmente mutato o attenuatosi – la preoccupazioni iniziali siano sparite, dando per scontato che il solo passare del tempo avesse cambiato il quadro generale. Ora si possono riaprire gli stadi? E andare in campo facendo meno tamponi o meno quarantene? E perché ancora a giugno le migliori penne della nostra stampa s’accapigliavano sulla fattibilità degli allenamenti di gruppo? Cosa è cambiato?

Niente, anzi abbiamo rimosso il passato prossimo come dei pesciolini rossi in una boccia d’acqua stantia. I camion dell’Esercito pieni di cadaveri li abbiamo sostituiti con l’amichevole dell’Italia a Bergamo, in ricordo di quegli stessi morti. Come se nel frattempo avessimo sconfitto la malattia, e non vivessimo invece nella stessa identica realtà. Si chiama schizofrenia.

Il calcio ha seguito questa traccia di pericolosa sufficienza da un preteso (ed ottenuto) piedistallo di superiorità. Perché Lebron – lui che da solo è una vera industria, fa provincia e batte moneta – ha accettato la “bolla” NBA e i calciatori no? Persino ora che il caso “Napoli-Genoa” sembra risvegliare le coscienze di un universo fanciullo, in cui le cose brutte non accadono e se accadono riguardano sempre altri, l’ipotesi della “bolla Serie A” non è minimamente presa in considerazione. I tennisti sì. I miliardari del basket americano pure. Ma i calciatori no. Bolla uguale ritiro uguale ammutinamento preventivo.

Nella visione egomaniacale del mondo che il calcio trasmette non è la Serie A a doversi imbarcare per l’Elba. È il contrario: siamo noi a doverci isolare, perché l’industria possa continuare a macinare le sue follie.

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