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Ray boom boom Mancini: «Uccisi Kim con un pugno. Il senso di colpa me lo sono portato per la vita»

Il Giornale lo intervista. La madre del coreano e l’arbitro dell’incontro si suicidarono dopo poco. «Guardai le mie mani e mi chiesi: come è potuto succedere?»  

Ray boom boom Mancini: «Uccisi Kim con un pugno. Il senso di colpa me lo sono portato per la vita»

Il Giornale intervista Ray Mancini, italoamericano campione del mondo dei pesi leggeri WBA. Il 13 novembre 1982, a Las Vegas, al 14esimo round tramortì il sudcoreano Duk Koo Kim con un terrificante destro al volto. Kim morì cinque giorni dopo in ospedale. Sua madre, quattro mesi dopo, disperata, si suicidò. E lo stesso fece l’arbitro dell’incontro. Ray porta sulle spalle una tragedia che ha coinvolto tre persone. Una cosa che cambia per sempre.

«Da allora quel senso di colpa mi ha accompagnato per quasi tutta la vita. Prima dell’incontro con Kim, ero un pugile di 21 anni così famoso che Frank Sinatra volle conoscermi. Persino Reagan mi ricevette alla Casa Bianca. Vorrei non averlo dato».

Racconta le sue origini, in Ohio, figlio di un emigrato siciliano di Bagheria.

«Mi veneravano, per via del mio stile aggressivo che avevo ereditato da mio padre, come del resto il soprannome “Boom Boom”. Anche mio papà Lenny era un pugile, lo faceva per sfamare la nostra famiglia ai tempi della crisi del ’29. Lo scoprii nella lavanderia del seminterrato, quando vidi vecchi ritagli di lui sul ring. Scelsi di fare il pugile perché volevo vincere quel titolo mondiale che mio padre, ferito in maniera grave durante la seconda guerra mondiale, non poté vincere, benché fosse il numero uno. Ci riuscii. Questa storia, la nostra storia, piaceva alla gente».

La notte del destro a Kim il suo amore per il pugilato svanì per sempre. Racconta:

«Ero sdraiato sul letto in hotel con la borsa del ghiaccio su un occhio, mi si avvicinò il mio allenatore con un’espressione seria e mi disse: “Ray, il tuo avversario è in pericolo di vita, devi prepararti al peggio”. Ma io non mi ero neanche accorto che Kim lo avessero portato in ospedale. Guardai le mie mani e mi chiesi: come è potuto succedere? Non ci potevo credere. Pensai che avrei potuto essere io al suo posto. Nel giro di un paio d’ore, passai dal momento più esaltante della mia vita alla disperazione più profonda».

Da lì, il crollo.

«Caddi in depressione, sì ma ne uscii grazie alla mia fede. Parlare con il mio  prete, con uno psicologo e con la mia famiglia mi aiutò, ma riprendermi del tutto dipendeva solo da me. Ci sono riuscito».

Quell’episodio indusse la boxe a cambiare le regole. I round furono ridotti da 15 a 12.

«Una farsa. La scelta di diminuire il numero di riprese non ha impedito ad altri pugili di morire ancora oggi. Anzi, sono state più le morti sul ring nei 38 anni successivi al mio match con Kim che nei sessant’anni precedenti. Ne ho parlato con neurologi e neurochirurghi: non ci sono prove sostanziali sul fatto che la maggior parte degli incidenti avvenga dal 12° al 15° round. Così facendo la boxe ha perso il suo storico fascino. Non ci saranno più fenomeni come Rocky Marciano, Carmen Basilio e Roberto Duran, il migliore di tutti e mio amico».

 

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