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Il suicidio assistito del Barcellona, un trattato di masochismo

Gli scandali politici, gli acquisti ultramilionari, l’esonero ideologico di Valverde. Il 2020 blaugrana è una lunga discesa nel baratro: del Barcellona è rimasto solo il nome. E Messi

Il suicidio assistito del Barcellona, un trattato di masochismo

Gennaio 2015 è un mese sepolto nella soffitta del Barcellona. Ma se chiedi alla polvere, la storia ha sempre un altro tono. A gennaio del 2015 una sconfitta in casa della Real Sociedad produsse una catena d’isteria: Messi, infuriato con Luis Enrique, che salta un allenamento perché sì e basta; Puyol, allora fresco dirigente, che si dimette; Andoni Zubizarreta, il direttore sportivo, che viene dimesso. Col senno di poi, quella è una crepa. Oggi, cinque anni dopo, sta venendo giù tutto il palazzo.

Il salto temporale ha un punto fermo: avviluppato dai fumi delle macerie, c’è ancora Messi. Il quale, a 33 anni, 6 Palloni d’Oro, e un taglio di capelli adatto ai tempi, prima di rispondere all’ennesima domanda sulla crisi blaugrana, si ritrova nel pieno di un conflitto intergenerazionale tutto suo. Era il giovane che aveva il solo compito di invecchiare vincendo, ora è il vecchio vincitore che ha il compito di non perdere. Non così.

Il Barcellona che proietta sul Napoli – usato come metafora del fondo del barile (“se continuiamo così perdiamo PERSINO col Napoli”) – tutta la sua crisi esistenziale, è un simbolo del potere che implode per masochismo. Difficile empatizzare, hanno fatto tutto da soli.

Il 2020 blaugrana è una rincorsa alla sofferenza, auto-imposta con metodo. Bartomeu il presidente che prima di lasciare incendia i pozzi. In una teoria di catastrofi mediatiche in successione. Un baratro politico scavato una goccia alla volta: gli scandali, gli acquisti ultramilionari, l’esonero ideologico di  Valverde (che aveva già capito tutto, prima degli altri). E Messi che diventa suo malgrado l’ancora di salvezza, sul campo e in società. Il masochismo funziona benissimo nelle dipendenze. Il Barcellona è Messi-dipendente a vari livelli. Lui, la Pulce, li odia tutti: si sente bloccato in una prigione dorata. La fuga è economicamente impossibile.

A metà gennaio Bartomeu ha esonerato Ernesto Valverde primo in classifica. Dopo due campionati vinti di fila. Non accadeva da 17 anni, dalla cacciata di Luis Van Gaal nel 2003. Ma quel Barcellona era decimo, a 20 punti dalla capolista. Valverde se ne va rincorso come una strega dall’Inquisizione, per presunta eresia. Ma soprattutto l’allenatore viene sacrificato in uno sbuffo di egomania societaria: il Barcellona è per luogo comune “Més que un club”, e la Liga è un bersaglio povero, scontato. Il Barcellona deve vincere la Champions, e deve vincere giocando meglio degli altri. È un esperimento dettato dall’ambizione insensata di coniugare risultatismo e giochismo.

Quique Setién diventa, persino in premessa, un danno collaterale. A inizio febbraio il direttore sportivo Eric Abidal, in un’intervista a Sport dice:

«Molti giocatori non erano soddisfatti. Il rapporto tra l’allenatore e lo spogliatoio è sempre stato buono, ma da ex giocatore riesco ad avvertire alcune sensazioni. Ho detto al club cosa pensavo e ho dovuto prendere una decisione».

Messi intuisce il cigolio, non ancora il crollo. Su Instagram difende lo spogliatoio:
«Quando si parla di giocatori si dovrebbero fare i nomi, se no si finisce con l’infangare tutti con cose non vere»

Meno di due settimane dopo ecco il “Barçagate”. Cadena Ser accusa il Barcellona di aver pagato un milione di euro alla società privata I3 Ventures per screditare a mezzo social i suoi stessi giocatori, e un po’ di ex tra senatori, allenatori e dirigenti. Con lo scopo, di sponda, di rivalutare l’immagine del presidente e della sua giunta. Esce anche un dossier di 36 pagine: I3 Ventures gestisce account pr diffondere cattiverie su Messi, Piqué, Xavi, Puyol e Guardiola, ma anche sul presidente di MediaPro Jaume Roures e sull’ex presidente catalano Carles Puigdemont.

Messi è sempre lì nel mezzo. E tra i sassolini che comincia a togliersi dagli scarpini, ce n’è uno che è indicativo. In un’intervista al Mundo Deportivo dice: “Sono stufo che si continui a dire che io abbia un certo potere nello spogliatoio e nella società, sono falsità”.

Nel vortice del potere che si attorciglia, Messi annaspa: non lo vuole quel potere così opprimente e tossico. Sa di esserne una vittima, lui con il Barcellona appresso.

Il 21 febbraio Bartomeu si muove tra le gerarchie del club: parla con Messi, Piquè, Busquets e Sergi Roberto, con l’allenatore, e i suoi quattro vicepresidenti e il CEO del club, Oscar Grau, poi incontra la giunta direttiva. Salta Jaume Masferrer, il braccio destro di Bartomeu. E’ una demolizione al rallentatore, in controtempo con la realizzazione dell’Espai Barça, il progetto di restyling del Camp Nou, e degli altri impianti del club.

La sconfitta con l’Osasuna, e il contemporaneo titolo aritmetico al Real, passa come una detonazione, quando il castello è già crollato. Il lockdown vale come alibi parziale, perché nel frattempo i rivali le vincono tutte. La resa, a Barcellona, è un concetto drammatico. La gestione delle aspettative è patologica.

Il potere logora chi ce l’ha, altroché. E il Barcellona è alla fase terminale di un suicidio assistito. Magari, poi, perde “persino” con il Napoli. Hai visto mai.

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