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Ve l’immaginate in Moneyball la discussione su Callejon che deve giocare gratis?

Il calcio è ripartito col suo bagaglio di ipocrisia. I discorsi sull’industria e il professionismo sono un lontano ricordo. È tornato il teatrino: il cuore, la maglia, la moglie

Ve l’immaginate in Moneyball la discussione su Callejon che deve giocare gratis?

Non sono passati neanche quindici giorni dal ritorno del calcio giocato e tutto ormai è tornato alla normalità. Le polemiche, i dissidi interni, le insinuazioni, le stroncature seguite da esaltazioni. Tutto è tornato nei consueti, tranquillizzanti binari. Ed è tornata anche l’ipocrisia di sempre, per nulla scalfita da mesi di lockdown. Il calcio ha ripreso seguendo il solito schema di finzione. Le polemiche sull’industria che deve a tutti costi ripartire, sono un lontano ricordo.

E nel classico schema rientra pienamente la vicenda Callejon che ovviamente – non sia mai – non può essere trattata come un normale rapporto professionale. Callejon è tra quelli che qualcuno – forzando non poco la mano – ha definito gli esodati del calcio. Il contratto col Napoli scade il 30 giugno ma la stagione prosegue fino ad agosto. Quindi, per continuare a offrire le sue prestazioni nella vecchia squadra, dovrebbe avere un contrattino di due mesi. Come accadrebbe in qualsiasi azienda, persino per i lavoratori stagionali.

No. Nel calcio, almeno per quel che stiamo vedendo a Napoli, non si può. A leggere i quotidiani pare che la ovvia richiesta di Callejon di allungare il contratto di due mesi allo stesso stipendio mensile di prima, sia stata respinta con sdegno dal club. Ma come? Non gioca per il cuore? Per l’attaccamento alla maglia? Persino la moglie è già intervenuta sui social per dire che la storia tra Napoli e il marito non è finita. Il puzzle è completo. La permanenza di José sarà una questione di cuore e guai a chi si azzarderà a ipotizzare il contrario.

N’ata vota, ci viene da dire. A ridaje, esclamerebbero a Roma. Dopo tutto quel che abbiamo visto, con dirigenti, presidenti, giornalisti, che hanno montato quel ridicolo can can per far passare l’idea che il calcio sia un’industria, stiamo di nuovo a “deve giocare per la maglia”. La situazione è irrimediabilmente irrecuperabile. Dobbiamo obbligatoriamente comportarci come il criceto nella ruota. Se non recitiamo il ruolo di deficienti, non va bene.

La grande industria – scusate, ci scappa da ridere – è ripartita come prima. Non hanno nemmeno aspettato un mesetto per rimettere in moto il treno delle plusvalenze gonfiate, giusto per fare un esempio. Poi quando il mercato, quello vero, bussa alle porte della Serie A, i presidenti si spaventano. Che brutte leggi che ha questo mercato: chi mette i soldi, vuole decidere. Che volgarità. Noi stiamo tanto bene così.

In questi giorni, Netflix ha messo in programmazione Moneyball film di dieci anni fa, che in Italia è stato barbaramente tradotto in L’arte di vincere. Film di cui si parla spesso nel calcio e non solo. È la storia – per molti nota – del direttore generale della squadra di baseball di Oakland (interpretato da Brad Pitt) che si affida a un laureato in Economia e al suo algoritmo per la selezione dei calciatori da acquistare. Ovviamente – ma non è questo il focus – a Oakland il papponismo non esiste. Non ve n’è traccia nel film. I tifosi non compaiono se non sugli spalti nella loro funzione di tifosi. Punto. Immaginate cosa sarebbe accaduto a Napoli se il club avesse sostituito Higuain con un semisconosciuto centravanti dalle brillanti statistiche in altri campionati?

Tant’è vero che in Italia Moneyball ha avuto scarso successo, lo hanno distribuito pochissimo nelle sale. Il film ha una visione americana. Si concentra sulla sfida al sistema, sulla possibilità di allestire una squadra di successo con giocatori ritenuti scarti e quindi di scarso valore. In Moneyball non ci sono le proteste dei tifosi. E non ci sarebbe nemmeno un caso Callejon. Non ci sono discorsi toccanti come in “Ogni maledetta domenica”. Il professionismo è dato per assodato. Nel baseball americano cambiano i giocatori da un’ora all’altra.

Quando cerca di trasformare il nerd degli algoritmi in un dirigente, Brad Pitt gli spiega come fare quando si tratta di comunicare a un giocatore il trasferimento: «Sono professionisti, non devi fare giri di parole. Gli dici: “da oggi non sei più con noi, giocherai e gli comunichi la sua nuova squadra. Gli dai il numero della persona che si occuperò del suo trasferimento”». Meraviglioso. Senza mogli, senza social, senza scene strappalacrime. Non esistono nel film. Sono professionisti. Il professionismo è un pre-requisito. Il baseball è un lavoro. Anche se emozionante. Anche se alla fine lui rifiuta una cifra stratosferica. C’è un castello di sentimenti che avvolge il baseball e Moneyball ma la ridicolaggine di pensare che un giocatore possa farlo per amore e non per soldi, no, non è presa minimamente in considerazione.

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