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Se Koulibaly andrà via lo farà da napoletano autentico, non come Sarri

Kalidou ha ripetuto più volte di sentirsi ormai tale e non ci sono motivi per non credergli. I tifosi dovrebbero dedicargli un coro. E’ un simbolo identitario, non come Sarri, che era divisivo

Se Koulibaly andrà via lo farà da napoletano autentico, non come Sarri
Inutile negarlo: per fare un ulteriore salto in avanti nella sua carriera, probabilmente tra qualche anno Kalidou Koulibaly andrà via da Napoli, come accade a tanti uomini nati sotto l’ombra del Vesuvio. Piaccia o meno, è la dura legge dell’attuale calcio iper professionistico e, più in generale, del mercato del lavoro del terzo millennio. Ma quel giorno, che tutti ci auguriamo il più lontano possibile, il difensore che da luglio 2014 indossa la maglia azzurra numero 26 lo farà da autentico napoletano.
Kalidou ha ripetuto più volte di sentirsi ormai tale e non ci sono motivi per non credergli.
Certamente è un po’ più difficile farlo dopo la delusione provata negli scorsi mesi per le pur legittime scelte professionali del precedente idolo della tifoseria, Maurizio Sarri.
Nonostante avesse del prototipo del napoletano medio – nella tipologia di carattere, nei modi di fare, nella parlata- non più di quello che Balotelli ha di palermitano, per tanti supporter partenopei Sarri era divenuto il loro eroe, il rappresentante delle lotte napoletane nel mondo del calcio.
Un’illusione infrantasi con la dura realtà, non solo e non tanto il giorno dell’annuncio del suo ingaggio da parte della Juventus, ma soprattutto in occasione della sua presentazione alla stampa.
In quella occasione Sarri ha sostanzialmente rinnegato le dichiarazioni del triennio napoletano, dietro alle quali tanti avevano visto un coinvolgimento anche personale, non solo professionale. Lo ha fatto ad esempio con frasi come : “Ho detto tutto quel che serviva per provare a sconfiggere il mio avversario, lo rifarei”.
Una svolta professionale per la quale Sarri ha ritenuto necessario sconfessare anche quel neologismo, “sarrismo”, che lo aveva reso famoso più che per i risultati. Il nuovo tecnico della Juve ha derubricato il termine con un semplice “modo di giocare”, abiurando di fatto- e contravvenendo alla definizione della stessa Treccani- ogni legame con la città di Napoli.
C’è da scommetterci: anche in caso di una sua futura partenza, con Koulibaly non si ripeterà il copione visto questa estate. Kalidou non è nato a Napoli, non vi ha vissuto i primi anni della sua vita, non può dire di aver tifato da piccolo per la squadra nella quale è attualmente tesserato. Anzi, prima di viverci e conoscerla, quasi la temeva, come con la solita sincerità non ha avuto difficoltà ad ammettere nel corso della splendida intervista pubblicata lo scorso giugno dal sito The Players tribune: “Non mento, sono colpevole anch’io di aver avuto pregiudizi su certi luoghi e certe persone. Prima di venire a Napoli ero in ansia perché non sapevo parlare la lingua e la gente parlava male della mafia e così via. Non ci ero mai stato, quindi non sapevo se raccontassero la verità.”
Occorre un po’ di immaginazione per i diversi tratti somatici, ma la sua infanzia povera, il suo passato pieno di rinunce, il carattere estroverso e il cuore generoso lo rendono simile a tanti scugnizzi che grazie al loro immenso talento – e seguendo la loro passione- hanno avuto successo nella loro attività.
Se a Sarri- in nome dell’amore incondizionato provato nei suoi confronti da gran parte della tifoseria napoletana- sono state perdonate risposte arroganti a chi osava fargli domande non gradite in conferenza stampa, infelici battute sessiste (polemica post Inter-Napoli con la giornalista Titti Improta), frasi omofobe (quelle rivolte a Mancini durante una partita persa in Coppa Italia) e scelte umanamente inspiegabili (nessun minuto in campo a Christian Maggio nella match, ormai già vinto, dell’addio alla maglia dell’ex vicecapitano), per amare Koulibaly nessun tifoso deve chiudere nemmeno una ciglia di un occhio.
Kalidou a differenza di tanti altri calciatori nati nel suo Continente, che cinicamente per il bene della propria carriera preferiscono non inimicarsi nessuno, non fa finta di nulla quando qualcosa non gli sta bene. Dall’alto della sua popolarità, combatte in maniera leale – in 212 partite ufficiali sinora giocate con la maglia del Napoli il senegalese ha rimediato appena un’espulsione per doppia ammonizione e due rossi diretti, di cui uno a Milano lo scorso dicembre, per la purtroppo celebre frustrazione dovuta ai cori razzisti- e con il volto sempre attraversato da un sorriso buono la sua battaglia culturale.
Con fierezza e coraggio porta avanti la lotta a ogni forma di razzismo, non solo verso chi ha la pelle nera . “So che succedono questi episodi e non solo per il colore della pelle. Sento quello che dicono i tifosi ai miei compagni di squadra, chiamano i serbi “zingari” e chiamano pure un italiano come Lorenzo Insigne “napoletano di merda”.
 Il precedente idolo dei tifosi napoletani era in qualche modo divisivo: senza volerlo, Sarri era diventato uno strumento indiretto usato da molti per spingere il tifo ad attaccare la società. Si sosteneva che il Napoli facesse bene a livello di gioco -indubbiamente in svariati casi molto spettacolare, soprattutto grazie al suo allenatore – nonostante la rosa fosse non abbastanza competitiva, per colpa dei mancati investimenti del presidente. Non si poteva parlare più di tanto di ottimi risultati, visti i due secondi posti in campionato in tre anni (piazzamenti semplicemente in linea col valore tecnico della squadra, come mostrato dalle stagioni precedenti e successive alla sua gestione). Risultati in campionato ottenuti a discapito però di una sola semifinale in Coppa Italia e di tre (su tre stagioni) molto precoci eliminazioni a febbraio nelle coppe europee, dove contro le big europee il Napoli è sempre stato sconfitto, anche al San Paolo.
Per portare avanti la tesi anti societaria non bastava definire Sarri – come, per carità, lo è – un ottimo allenatore: occorreva divenisse un mago del calcio. I cinque esoneri subiti e i ben vent’anni necessari per emergere dalla C alla A erano solo colpa di altri. Il secondo posto della sua prima stagione a Napoli veniva così fatto passare addirittura per miracoloso. Per favorire la sua leggenda si puntava a parlare esclusivamente di una parte della verità: come un mantra si ripeteva sempre che nella stagione precedente al suo arrivo, il Napoli fosse arrivato al quinto posto. Si sottaceva il rigore sbagliato a dieci minuti dalla fine del campionato che avrebbe dato la terza posizione e dei percorsi sfortunati -sino alle semifinali- in Coppa Italia e Europa League (dove la finale fu persa solo per una clamorosa svista arbitrale). Non si trovava nessuno a ricordare come il tecnico toscano avesse ereditato una squadra che tra mille episodi negativi – Higuain sbagliò cinque rigori nel suo secondo campionato napoletano- arrivò comunque a soli sette punti dal secondo posto, provando però a vincere le coppe nelle quali partecipava. Un tentativo, quello tentato coraggiosamente da Benitez nel suo secondo anno, fatto con titolari per diversi motivi mediocri a certi livelli come Andujar, ovvero l’ex portiere di riserva del Catania retrocesso, Maggio già trentatreenne e inadatto alla difesa a 4 e due tra Gargano, David Lopez e Inler come titolari. Per capirci: questi ultimi l’anno successivo sarebbero, rispettivamente, emigrati in un calcio mediocre come quello del Messico o finiti perennemente in panchina (lo spagnolo nel Napoli, lo svizzero nel Leicester). Nel primo anno del tecnico toscano vennero sostituiti come titolari da elementi ottimi – e soprattutto dal calibro ben diverso di chi andavano a rimpiazzare – come Reina, Hysaj e Allan (senza contare la crescita fisica e di esperienza di giocatori in precedenza inevitabilmente acerbi e/0 inesperti del calcio italiano come Insigne, Ghoulam e lo stesso Koulibaly). Se è vero che, uscendo però dalle due coppe a febbraio, nel primo anno di Sarri si fecero rispetto all’annata precedente diciannove punti in più in campionato lo è altrettanto che furono appena quattro in più di quelli totalizzati due stagioni prima con Benitez in panchina, a dimostrazione del valore tecnico oggettivo della rosa a cui ormai si era già assestato il Napoli, ben prima dell’arrivo del suo nuovo allenatore. E comunque, se davvero valesse la regola -illogica va detto, visto il mutamento di infinite variabili tra cui il valore degli avversari, il momento in cui li si è affrontati e la qualità della propria rosa – del confronto del rendimento tra diversi campionati, a Empoli il successore di Sarri, Marco Giampaolo, con una squadra smatellata nei suoi giocatori cardine, fece più punti di lui e, soprattutto, si classificò meglio.
La favola dell’ex dirigente di banca ritrovatosi a lottare per lo scudetto era però effettivamente molto affascinante e non era il caso di approfondirla tecnicamente -i giornalisti americani usano ripetere “mai rovinare una bella storia con la verità”- tanto più che in Italia si ama ingigantire meriti e colpe degli allenatori nella valutazione del rendimento di una squadra.
Sul presunto miracolo compiuto furono spese vagonate di articoli dai media nazionali che raramente in realtà avevano visto giocare e studiato con attenzione analitica la squadra partenopea. A loro si aggiunse poi chi a Napoli per preconcetto doveva attaccare la società e poco importava a questi ultimi di ritrovarsi nel paradosso di usare una scoperta per certi versi geniale del presidente per criticarlo: il fine giustificava ogni mezzo e portava i non addetti ai lavori a esaltare anche più del dovuto il pur oggettivamente buonissimo lavoro svolto da Sarri. Alla causa aiutarono anche tanti romanzatori, alcuni in buona fede e solo un pò sprovveduti tecnicamente, i quali, con buona penna, ingigantivano e deformavano pensieri e azioni del tecnico, per raccontare una storia molto romantica, che inevitabilmente tanto seguito trovava tra i tifosi.
Per fortuna, però, tanta acqua ormai è passata sotto i ponti e dopo il passaggio dal Chelsea alla Juventus -preceduto sino a qualche giorno prima da continui saluti e dediche ai tifosi napoletani- è finito l’amore di molti napoletani per Sarri, un sentimento da sostenere se necessario durante lo scorso anno persino in barba al Napoli, purchè si portasse avanti la beatificazione dell’allenatore di Filigne Valdarno. Questa passione incondizionata e cieca -che l’anno scorso viveva di sana leggenda e faceva sentire entrando al San Paolo “E comm ioc o Chelsea!”, a dispetto del relativo gioco sparagnino e basato sulle giocate di Hazard avuto sapientemente dai Blues- è finita. Poco importava che l’adorazione fosse rivolta a chi liberamente (e legittimamente) aveva deciso di andare via per cercare più soldi (lo aveva con molta onestà ammesso) e gloria, visto che Sarri aveva dichiarato più volte che restando a Napoli non avrebbe che potuto peggiorare quanto da lui sino ad allora fatto, se non intervenendo sul mercato con grandissimi investimenti. Del resto, non una sola volta, nemmeno alla fine del campionato dei 91 punti, dopo Napoli- Crotone, l’allenatore toscano aveva detto “Voglio rimanere” rendendo più che credibile la tesi per la quale da mesi avesse già nell’inverno del suo terzo anno napoletano avesse trovato l’accordo con i Blues.
Ha ragione l’ufficio marketing del Napoli, nel lancio della campagna pubblicitaria della nuova casacca 2019-20della squadra, ad aver ripescato provocatoriamente, il detto ultras “Conta solo la maglia!”. Sarebbe però bello se un nuovo ciclo di ritrovata passione iniziasse con uno spirito diverso da parte della tifoseria, magari riaggregandosi con un simbolo non più di quanto ci sia ancora da fare (l’allenatore mago che fa miracoli a dispetto della qualità della rosa), ma piuttosto dell’orgoglio della forza già raggiunta dalla squadra, e che questo avvenisse tramite uno dei suoi fiori all’occhiello.
Koulibaly, il giocatore in rosa dal valore più alto e uno dei più conosciuti internazionalmente (utilizzando,secondo i canoni attuali, come indicatore i follower sul Instagram, nel Napoli attuale solo Mertens ne ha di più) in tal senso ha tutti i crismi, caratteriali, comportamentali ma anche identitari, di possibile nuovo idolo della tifoseria napoletana. Colui che per tanti addetti ai lavori è quantomeno tra i primi tre difensori al mondo e che in questi ultimi anni rappresenta – con il suo stacco in cielo a beffare la difesa bianconera – l’eroe della più bella serata dell’ultimo quinquiennio, quella della presa dello Juventus Stadium e dell’illusione della conquista dello scudetto, ne ha davvero tutte le qualità. Le avrebbe senz’altro anche Insigne, ma l’attuale capitano, non solo per colpa sua, non è mai riuscito sinora a farsi amare completamente (nessuno è profeta in patria, tantomeno a Napoli). Kalidou ha dalla sua il vantaggio, come in verità anche Mertens, di un carattere che è comunque per la sua estrosità comune a quello di tanti napoletani e lo ha liberamente confermato nella sua intervista rilasciata al Tribune’s Player. “Ero un ragazzo quando sono arrivato in Italia. Sono diventato un calciatore migliore perché ho imparato la tattica ad alti livelli. Sono così precisi qui sulla tattica, ma la cosa più importante è che sono diventato un vero uomo di famiglia e un vero napoletano. Anche quando torno a casa in Francia ormai, i miei amici non mi chiamano più “il senegalese” o “il francese”, ma dicono: “Ecco il napoletano”. Napoli è una città che ama la gente. Mi ricorda l’Africa perché c’è tanto affetto. La gente vuole toccarti, vuole parlarti. La gente non ti tollera, ti ama. I miei vicini mi vedono come un figlio. Da quando sono arrivato a Napoli sono un uomo diverso. Sono davvero tranquillo”.
A prescindere da chi indosserà la fascia di capitano è auspicabile l’inizio di un nuovo ciclo nel rapporto tifoseria- squadra. In tal senso, magari anche dedicando a Kalidou cori personali, il tifo napoletano potrebbe riconoscere in Koulibaly il suo nuovo condottiero: Kalidou è un leader in campo e un simbolo che non tradirà mai l’affetto del popolo della città in cui è diventato uomo e in ogni partita con la maglia azzurra giocherà, con senso d’appartenenza, sentendosi in campo “napoletano”.
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