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Travaglio e il Ponte Morandi: «Il giornalismo non è libero dai Benetton»

Il direttore del Fatto Quotidiano: «Una tragedia che ha fatto capire che gli inserzionisti non comprano solo pubblicità, ma anche un pezzo del giornale»

Travaglio e il Ponte Morandi: «Il giornalismo non è libero dai Benetton»

Sulla concessione ad Autostrade, i Benetton e i problemi relativi alla manutenzione dell’intera rete, Il Fatto Quotidiano si è espresso più volte, anche in tempi non sospetti, ben prima del crollo del Ponte Morandi. Tra i quotidiani, è quello che finora ha assicurato la maggiore copertura alle indagini sul disastro che il 14 agosto scorso è costato la vita a 43 persone. Proprio sul dopo-Genova, ne abbiamo intervistato il direttore Marco Travaglio.

Il crollo del ponte Morandi è stato come il nostro 11 settembre: ha distrutto ogni certezza. Secondo lei l’Italia ha percepito così quanto è accaduto?  

«Sì, adesso tutti quelli che passano su un viadotto si fanno il segno della croce, anche perché è evidente che la situazione della manutenzione della rete autostradale è deficitaria un po’ dappertutto. La percezione è sicuramente cambiata e c’è da augurarsi sia cambiata anche da parte di coloro che devono fare la manutenzione ed i controlli, anche se l’esperienza ci insegna che passata non la festa ma in questo caso il funerale, gabbato lo santo, nel senso che siamo capaci di grandi fiammate di poche ore e di pochi giorni e poi ci si dimentica tutto. È evidente che non si può confidare soltanto in una nuova sensibilità di chi deve fare i controlli o le opere ma bisogna agire strutturalmente. È per questo che credo sia molto giusto quello che sta cercando di fare il governo, cioè rivedere tutte le concessioni e, nel caso di rinnovo, inserire degli obblighi stringenti e verificabili perché chi fa soldi su un bene pubblico come le autostrade, che sono pagate e ripagate tre volte con le tasse, reinvesta gran parte degli utili in manutenzione e in controlli, anziché in operazioni spericolate all’estero o in speculazioni in borsa».

Che idea si è fatta su come i giornali stanno trattando il crollo del ponte Morandi?

«I primi giorni non usavano nemmeno nominare la parola Benetton: era assolutamente tabù. Se si va a vedere quanti soldi ha investito in pubblicità sui giornali e sulle tv la Benetton e quante sponsorizzazioni ha fatto la famiglia, a programmi televisivi, eventi, feste di giornali, e i conflitti di interesse addirittura con i gruppi editoriali, si capisce bene che i Benetton sono addirittura innominabili, intoccabili. Non conviene. Soltanto giornali come il nostro, che non vivono di pubblicità e tantomeno di Benetton, hanno potuto permettersi non subito dopo il crollo ma anche anni prima del crollo di mettere in discussione una concessione che era tutta a vantaggio del concessionario e a scapito del concessore. Questa vicenda ha dimostrato chiaramente quale distorsione produce una pubblicità che in realtà sottende altro: chi fa pubblicità, oggi, in larga parte non compra soltanto pagine pubblicitarie ma anche un pezzo del giornale».

Il Fatto è stato l’unico quotidiano a pubblicare la foto di Zampini (ad di Ansaldo Energia) e Bono (ad di Fincantieri) che se la ridono spassosamente sotto ciò che resta del ponte Morandi durante un sopralluogo a nemmeno 10 giorni dalla tragedia. L’unico altro quotidiano che ne ha parlato è stato Il Foglio, in un breve articolo di Maurizio Crippa, tra l’altro in polemica col Fatto. Come mai avete deciso di pubblicarla? E come mai secondo lei gli altri non lo hanno fatto?

«Credo che chi non ne ha parlato e chi ha criticato Il Fatto prima o poi verrà debitamente compensato con qualche pagina di pubblicità. Se Il Foglio non avesse pubblicità e soldi pubblici, sarebbe già fallito. Anzi, non sarebbe mai nato visto quello che non vende, perciò è ovvio che il suo rapporto con gli inserzionisti sia inevitabilmente di sudditanza, sennò vanno tutti a casa. Devo dire che non impiccherei nessuno per quelle risate, ma sono state delle risate ampiamente inopportune perché erano a pochi giorni da un disastro che, nello stesso posto in cui quei signori ridevano, ha visto morire 43 persone. Magari erano sovrappensiero, forse non è la cosa peggiore che abbiano fatto nella loro vita, ma segnalarla per chiedere un po’ più di sobrietà non guastava. C’era questa foto, era una notizia, penso che sia stato giusto pubblicarla».

Era una notizia. Ma neppure dopo la pubblicazione da parte de Il Fatto qualcuno ha chiesto a Fincantieri e ad Ansaldo Energia il motivo di quelle risate…

«Esatto, cosa c’era da ridere in un posto così luttuoso che avrebbe dovuto portare a un minimo di contrizione, di raccoglimento? Era veramente una sguaiataggine che stonava con il clima generale. Anche se quell’episodio ovviamente non va confuso con quelle risate che ogni tanto vengono intercettate dopo un terremoto o dopo le sciagure, tra quelli che si spartiscono la ricostruzione. Non credo ridessero per quello, magari si sono semplicemente raccontati una barzelletta, ma non mi pare quello il posto dove raccontarsi una barzelletta, ecco».

Che cosa pensa dell’operazione trasparenza messa in atto da Autostrade sul suo sito web?

«È un’operazione di comunicazione resa tanto più necessaria in quanto c’è un’indagine in corso in cui la società Autostrade rischia veramente tutto. Quando ci sono 43 morti sulla coscienza e non si ha nemmeno il coraggio di assumersene la responsabilità, ma si continua ad inventare scuse o a dire che nulla poteva essere non dico previsto ma prevenuto, quando hai la responsabilità totale di quello che succede su quel tratto autostradale, è ovvio che poi ti devi arrampicare sugli specchi. La comunicazione è partita male e subito dopo la sciagura non ci sono state dimissioni, non c’è nessuno che ha fatto dimettere nessuno, si sono cercate scuse, si sono addirittura aspettati giorni e giorni prima di rivolgere una parola ai familiari delle vittime, si è scoperto che i Benetton hanno fatto due feste, una festa e una grigliata a Cortina poche ore dopo il disastro. Tutto questo dovrebbe indurre questi signori a rivolgersi a qualche comunicatore più efficace».

Negli ultimi giorni è tornata alla ribalta, sui giornali, la questione del camion che, nonostante il carico regolamentare, anche se di poco sotto i limiti stabiliti dalla legge, avrebbe fatto venire giù il ponte. Crede sia verosimile?

«Questa è la più grande cazzata che ho sentito. I viadotti, come dicono gli esperti, vengono costruiti per supportare una sfilata di carri armati e devono poter reggere un peso di gran lunga superiore a quello medio che vi transita tutti i giorni. L’idea che passi un camion un po’ più pieno degli altri, magari con un uccellino poggiato sul cassone di dietro e che quello basti a far crollare un ponte fa ridere quasi quanto la tesi del fulmine o cose di questo genere. Sono tutte cose che essendo ampiamente prevedibili ovviamente devono essere previste. Dubito che in cinquant’anni di storia quel ponte non abbia mai visto passare un camion di quel peso. Semplicemente quel ponte si è deteriorato nel corso degli anni, non è stato manutenuto come si doveva, non è stato sorvegliato come si doveva e quindi ci si è resi conto che improvvisamente quel ponte non era più in grado di stare in piedi, che avrebbe dovuto essere chiuso, per essere o abbattuto e ricostruito, oppure per essere rinforzato e riportato ai livelli di resistenza delle origini. Questa cosa che è colpa del camion, se non fosse una tragedia, sarebbe una farsa».

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