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L’assurdo clima che c’è a Napoli per Ancelotti, prescinde dai risultati

Non critica la rosa, anzi la esalta. Non parla di miracoli. Lavora su un gruppo che gioca a memoria da tre anni. Ha vinto 3 partite su 4 in campionato. Porta impressa la lettera scarlatta, A come aziendalista.

L’assurdo clima che c’è a Napoli per Ancelotti, prescinde dai risultati

“È un gestore”, come Tim e Vodafone

Andrebbe girato un film sul clima che si respira a Napoli attorno alla figura di Carlo Ancelotti. Allenatore osannato nel mondo, che riceve continui attestati di stima dai calciatori più forti del pianeta, e invece da noi convive con una cortina di scetticismo che non lo abbandona e che, a nostro avviso, prescinde dai risultati. È un altro aspetto della celebre diversità di Napoli, di cui tanti concittadini vanno fieramente orgogliosi.

Lo abbiamo scritto anche ieri, diffidate di chi nega che a Napoli ci sia un continuo confronto tra il nuovo e il vecchio. A Napoli si parla solo di questo. Del confronto tra Sarri e Ancelotti. È l’unico argomento di discussione, calcisticamente parlando. Sarri con cui il Napoli ha fatto benissimo: tre qualificazioni consecutive in Champions, 91 punti, uno scudetto sfumato a tre giornate dalla fine in una maniera che ancora fa discutere. Ma non siamo così sicuri che siano i numeri a determinare questo clima.

La galassia di tifosi potrebbe essere suddivisa in correnti, come facevano un tempo i quotidiani per descrivere le fazioni nei partiti politici. E c’è un gruppo, che potremmo definire anche cospicuo, di certo rumoroso, che considera Ancelotti un “gestore” (come Tim, Vodafone), un allenatore che fondamentalmente ha vinto soltanto perché ha allenato grandi squadre e grandi calciatori. Insomma uno baciato dalla fortuna. Non arriviamo a dire un incompetente, ci correggerebbero (ma sotto sotto lo pensano, un sopravvalutato), ma un allenatore che non ha mai dovuto penare perché – come dicevano i nonni – ha sempre avuto la mangiatoia bassa.

Insigne e i numeri in campionato dicono altro

Come se quel che sta avvenendo sotto i loro occhi, le trasformazioni tattiche di queste settimane, fossero frutto del caso. Si è giustamente osannata la trasformazione di Mertens in centravanti – da parte di Sarri -, non sta avvenendo nulla di neanche lontanamente simile per il lavoro che Ancelotti ha appena cominciato con Insigne. Eppure Lorenzo ha deciso una partita da centravanti vero e in un’altra, a Belgrado, ha colpito una traversa che in sei anni (con la palla a terra) non gli abbiamo mai visto fare. Una vera e propria trasformazione per un calciatore che per sei anni ha sempre giocato nella sua zolla di terreno preferita e da lì non si è mai azzardato a uscire. Ha scelto di lavorare su un gruppo che gioca a memoria da tre anni.  Perché, come tutti i grandi, è affascinato dalle sfide. Non ha puntato i piedi per avere chissà chi. È convinto che questa squadra possa fare di più, sta regolando il cycler. E fin qui sta andando anche bene.

L’impressione – fin qui suffragata dai numeri – è che la diffidenza (per alcuni malcontento) nei confronti di Ancelotti sia slegata dai risultati. Ha a che fare con altro. Fin qui in campionato il Napoli di Ancelotti ha vinto tre partite su quattro, nessuna ha affrontato e battuto Lazio, Milan e Fiorentina. La Juventus, di squadre medio-forti, ha affrontato soltanto la Lazio, la Roma il Milan e viceversa, l’Inter nessuna. La Lazio, ovviamente, noi e i bianconeri. Parliamo delle prime sei squadre favorite. Il Napoli è secondo in classifica, con 9 punti su 12 che in proiezione – anche se è presto per fare certi calcoli – ci porterebbero ad avere 85 punti a fine campionato. Tutto questo sembra quasi non esserci mai stato. Anche le vittorie degli azzurri sono state accompagnate – non da tutti, ovviamente – da spallucce. “Non è più la stessa cosa”. “Non c’è più il gioco che ci rendeva orgogliosi”. Al netto del pareggio, certamente deludente, dell’altra sera a Belgrado.

Non è una questione di risultati. È una questione di riconoscibilità. Di tratto identitario, direbbe qualcuno. Espressione che chi scrive non condivide, anzi respinge con tutte le sue forze. Che, per coerenza, dovrebbe portare a dire che il Napoli di Maradona non era identitario.

Non sappiamo quanto questo clima giunga ad Ancelotti. Lo abbiamo sempre immaginato diverso da Benitez che invece ne avrebbe senz’altro sofferto. Abbiamo più volte accostato Ancelotti a Liedholm il suo primo maestro (non ce ne voglia Arrigo Sacchi). Di Nils ha quel sano distacco, almeno apparente, quel riuscire a smontare un’impalcatura con una battuta che non è mai livorosa, tende sempre a smorzare, decisamente più dolce che amara. Da buon tenente Colombo, Ancelotti sa tutto, vede tutto, e giustamente va per la sua strada. Ne ha vista di acqua scorrere sotto i ponti.

Non si è mai lamentato, ha sempre elogiato la squadra

Chissà se però Ancelotti si sia mai trovato nella situazione di dover dimostrare qualcosa. Lui che è sinonimo di vincente, al contrario di altri. E che, al di là dell’aver vinto, ha sempre lasciato una traccia di sé. In ogni squadra in cui è andato. Probabilmente Napoli è il primo luogo di lavoro in cui Ancelotti si è reso conto che elogiare la propria squadra, il proprio gruppo, non porta consensi. No. Qui, per guadagnare popolarità avrebbe dovuto continuamente alludere alla presunta insufficienza del gruppo sia individualmente sia collettivamente. Se si fosse lamentato una mezza volta di un suo giocatore, o della rosa, sarebbe diventato immediatamente l’idolo della piazza.

La lettera scarlatta

Invece che ti fa? Si infortuna Mario Rui e lui senza battere ciglio butta in campo Luperto. Contro il Milan. In cinque partite utilizza già diciassette titolari e dice che con questa rosa è difficile fare la formazione. Imperdonabile. Errore da matita blu. Perché, è inutile girarci intorno, Ancelotti ha marchiato su di sé la lettera scarlatta, la A come nel romanzo di Hawthorne. A Napoli non sta per Adultera ma per Aziendalista. Il più grosso errore, dal punto di vista del consenso, commesso da Carletto.

Oltre ad altri meno importanti ma comunque rilevanti. Non parla di popolo, Ancelotti. Non dice che qui vincere è un miracolo. Anzi. Elogia il club, la sua solidità economico-finanziaria. Che, aggiungiamo, ha consentito di ingaggiare un tecnico che ci viene invidiato in mezzo mondo. Elogia i suoi calciatori. Ancelotti ha scelto la strada impervia del riformismo, lo abbiamo già scritto. Come Truffaut che disse: «in politica, mi considero un socialista riformista proprio quello che i gauchistes detestano di più». Fate le opportune sostituzioni, il meccanismo è lo stesso.

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