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Il calcio è politica. La Roma deve tanto alla battaglia di liberazione di Spalletti da Totti

Monchi e Di Francesco stanno raccogliendo i frutti dell’estenuante lavoro condotto quasi in solitudine da Spalletti. E nessuno nella Roma gioca allo scaricabarile

Un’operazione politico-culturale

Un’operazione culturale. O, se preferite, politico-culturale. Il calcio, come tutto, è sempre questioni di angolazioni, di inquadrature. C’è chi vive il calcio unicamente come espressione di quel che avviene sul terreno del gioco. E lega, soprattutto oggi, quel che avviene sul campo alla tattica. È l’epoca, diciamo il periodo, dell’ossessione della tattica. Come se tutto nascesse e morisse lì. Decenni e decenni di calcio gettati alle ortiche, per non dire altro. Quegli idioti della Germania Ovest che vinsero il Mondiale nel 1974. O ancora i nostri che nel 1982 trionfarono in Spagna. Gli esempi sono innumerevoli. Perché il calcio è merda e sangue. Ed è quindi politica. Ben più che estetica. Ma tanto di più. E l’Olanda del 1974 era anch’essa politica, cultura. Quel gioco era figlio di un periodo storico.

Una battaglia condotta in solitudine

Come dimostra quel che sta avvenendo a Roma. Fronte giallorosso. Ma potremmo parlare anche della sponda laziale. Venticinque anni dopo, la Roma ha cominciato la prima stagione senza Francesco Totti. E lo ha fatto perché nelle ultime due stagioni, un certo Luciano Spalletti ha portato avanti – praticamente da solo – una battaglia politico-culturale per il bene e per il futuro della società che lo pagava. E lo ha fatto in un ambiente decisamente più ostico di Napoli. Aveva una visione, Spalletti. E la sua visione era che il tempo di Totti – straordinario calciatore, bandiera della Roma – fosse finito. Perché nella vita tutto si conclude. E a un certo punto bisogna smettere di guardare indietro.

Spalletti ha lottato – ripetiamo, in solitudine – una battaglia per liberare la Roma dal suo passato. Si è beccato di tutto dai romanisti. È arrivato a esserne ossessionato. Si è sentito solo in uno stadio grande come l’Olimpico. Come se lui non stesse guardando qualche metro più in là. Al domani senza Totti.

I frutti li stanno raccogliendo Monchi e Di Francesco

Come spesso accade, i frutti di un lavoro di trincea vengono poi raccolti da altri. Luciano Spalletti aveva chiuso il suo periodo a Roma. Come si dice, aveva fatto il suo tempo. È andato all’Inter, coma sappiamo. Ma il lavoro più importante lo ha portato a termine. La festa d’addio di Totti non ci sarebbe stata senza di lui (e infatti fu sonoramente fischiato). E quest’anno, alle prime titubanze, Perotti avrebbe lasciato il posto al Pupone. E il dibattito sarebbe stato incentrato su di lui. Come è sempre avvenuto dal 1992.

Così scrive Maurizio Crosetti oggi su Repubblica:

Ci ha messo davvero poco, Di Francesco, ad addomesticare un gruppo frastornato dagli ultimi mesi di Spalletti & Totti. Ora si può dire: elaborato il lutto del Capitano è come se tutti i suoi adolescenti figliuoli fossero diventa- ti adulti di colpo. Dodici vittorie di fila in trasferta sono record della Serie A, e più dei numeri sorprende il modo. La Roma morsica il pallone, si estenua nei recuperi lì nel mezzo come quattro o cinque canzoni di Ligabue sui mediani tutte insieme. Nessuno gioca da solo, meno che mai i solisti.

Ha fatto il lavoro sporco

In realtà, secondo noi, la Roma di Monchi e Di Francesco ha usufruito e sta usufruendo del lavoro di Spalletti. Ha fatto il compito sporco. Ha recitato il ruolo del cattivo. I cattivi servono nella vita. Sono fondamentali. Il buonismo ci seppellirà in un mare di miele appiccicoso e nauseabondo. Spalletti ha tolto l’Alibi. Lo ha espulso. Ha vinto una dispendiosissima operazione politico-culturale, che probabilmente tanto gli è costato in termini di equilibrio nervoso. Ha avuto una città contro. Sì, gli anti-tottiani a Roam c’erano, ma sono sempre stati minoranza. E comunque non hanno mai sfondato mediaticamente.

Monchi ha proseguito l’opera

L’operazione culturale non si è fermata a Spalletti. È proseguita con l’ingaggio di Monchi. Uno che ha portato il Siviglia a vincere tre Europa League consecutive lanciando e vendendo fiori di calciatori. Uno che a Napoli definirebbero il principe dei papponisti. Quanti sfottò si è preso quest’estate sui social, e non solo. Perché Monchi ha venduto. Come si fa quando c’è da allestire una squadra. Si vende. Se si può vendere bene. E Monchi ha venduto. Salah al Liverpool. Rudiger al Chelsea. Paredes allo Zenit. E ha acquistato giocatori come il 21enne Pellegrini – riacquistato dal Sassuolo -, il 22enne Karsdorp (che poi si è rotto i legamenti del ginocchio), il 20enne turco Under, e i più esperti Defrel, Gonalons (che ben conosciamo) e Kolarov cui i giallorossi si sono aggrappati nei momenti grigi di quest’inizio stagione. Oltre all’unico sforzo economico degno di questo nome, fatto per Schick che però fin qui non ha praticamente mai giocato.

Nessuno gioca allo scaricabarile

La Roma – zitta zitta -, affidata al lavoro di Di Francesco, è la squadra italiana che più ha impressionato in Champions. Ha battuto il Chelsea 3-0 e ha grosse chance di qualificarsi in un girone con Chelsea appunto e Atletico Madrid. Ha perso due partite in campionato – contro Inter e Napoli – e contro i nerazzurri ha colpito tre pali. Ha vinto dodici partite consecutive in trasferta (e anche qui il record va diviso con Spalletti). È quinta in classifica con una partita in meno (da giocare a Genova contro un’altra squadra da elogiare: la Sampdoria di Giampaolo). Di Francesco ieri ha giocato a Firenze col ventenne Gerson, col ventunenne Pellegrini, con Gonalons in campo al posto di De Rossi. Ha rivitalizzato El Shaarawy che sembrava finito e ha segnato una doppietta al Chelsea.

Verranno i momenti bui anche per la Roma. Ma un progetto è sempre figlio di una visione politico-culturale. Poi le stagioni possono anche girare male. È il calcio. È la vita. Ma oggi la Roma sta vivendo quel che aveva programmato di vivere (anche se il club non ha affatto avuto lo stesso coraggio di Spalletti). E lo sta facendo senza mai giocare allo scaricabarile. Come avviene nei club che hanno in testa qualcosa e vogliono raggiungerlo insieme.

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