ilNapolista

Ha preferito Napoli a Philadelphia per studiare i tumori pediatrici: «Anche qui si può fare ricerca»

Intervista a Mario Capasso che al Ceinge porta avanti un progetto per il neruoblastoma pediatrico. Oggi e domani si conclude la campagna dell’Airc

Ha preferito Napoli a Philadelphia per studiare i tumori pediatrici: «Anche qui si può fare ricerca»
Mario Capasso

Nell’ultimo anno 102 milioni di euro per il finanziamento di 680 progetti e programmi di formazione destinati ai migliori talenti della ricerca oncologica italiana. Sono i numeri di Airc (Associazione italiana per la ricerca sul cancro) che oggi e domani sarà con i suoi volontari in oltre 900 piazze italiane con i Cioccolatini della Ricerca per le giornate conclusive della campagna 2017, con la quale l’associazione ha presentato i nuovi traguardi e le prossime sfide per la cura del cancro. Da lunedì le donazioni potranno avvenire nelle filiali della Ubi Banca e attraverso il numero solidale 45510.

Ne abbiamo parlato con uno di quei talenti che Airc sostiene e che ha voluto come testimonial della campagna di sensibilizzazione. Mario Capasso, napoletano, classe ’77, ricercatore dell’Università Federico II. Studia il neuroblastoma pediatrico. Una brutta parola. Una sentenza che mai si vorrebbe udire. Un male che viene diagnosticato in genere nei bambini al di sotto dei cinque anni e al quale spesso i piccoli pazienti non sopravvivono. Mario lavora in media dieci ore al giorno nel suo laboratorio presso il Ceinge-Biotecnologie avanzate. È uno di quelli che non mollano. Nel week end si dedica alla sua “bella” città, che ama al punto da aver rinunciato ad una posizione di rilievo presso il Children’s Hospital of Philadelphia, il numero uno tra gli ospedali pediatrici americani. Viaggia tutte le volte che può e va in palestra «perché è importante prendersi cura del proprio corpo». E trova il tempo per andare in giro per le scuole a spiegare ai ragazzi cosa è la ricerca, l’importanza di sostenerla.

La ricerca ha fatto passi da gigante, ma c’è ancora tanta strada da fare.

«Quando mi chiedono a che punto è la ricerca, rispondo sempre in modo positivo, perché la ricerca ha fatto grandi progressi sia per quel che riguarda la diagnosi, che per quel che riguarda la cura dei tumori. Se parliamo in particolare dei tumori del bambino, attualmente i dati dicono che tre bambini su quattro, cui è stato diagnosticato un tumore, superano la malattia. Tuttavia, non bisogna abbassare la guardia, perché i tumori sono la seconda causa di morte dopo le malattie cardiovascolari e tra i tumori pediatrici ci sono quelli aggressivi, ad alto rischio, che sono poco curabili».

Cosa si studia nel tuo laboratorio?

«Stiamo focalizzando la nostra attenzione sui tumori pediatrici incurabili. L’obiettivo della nostra ricerca è quello di identificare le alterazioni del DNA che concorrono allo sviluppo del tumore. In particolare, stiamo studiando le basi genetiche del neuroblastoma, un tumore ad alto rischio. In collaborazione con il professor Achille Iolascon (ordinario di Genetica medica della Federico II, ndr) abbiamo già identificato differenti geni alterati e ora stiamo testando quali sono i farmaci che funzionano come inibitori di queste alterazioni genetiche».

Ciò significa che a breve potreste trovare la cura per il neuroblastoma? Facciamo chiarezza, troppe volte si rischia di dare false speranze alle famiglie coinvolte.

«Il tumore è una malattia eterogenea e complessa e ha tante armi con le quali attacca i nostri organi. Vuol dire che non potrà mai esistere un’unica terapia per curare un tumore, ma ci vuole una combinazione di diverse terapie, diversi farmaci, diversi protocolli. L’insieme di tutto questo ci permette di arrivare gradualmente al cento per cento della cura dei tumori. Facciamo l’esempio proprio del neuroblastoma: prima si usavano solo chemioterapie, radioterapie e chirurgia. Dal 2010 è stata aggiunta l’immunoterapia e si è visto in questi anni che questo trattamento in più ha aumentato il numero di bambini che riescono a guarire».

Come si entra in un protocollo del genere? È complicato?

«Assolutamente no, si tratta ora di una prassi standard. Ma non ha risolto tutto il problema, perché non riesce a curare tutti i bambini. Ci sono poi i protocolli sperimentali. Alcuni mirano proprio a trovare la migliore combinazione tra i farmaci già conosciuti, altri a testare l’efficacia di nuovi farmaci».

Prassi standard. Protocolli sperimentali. Cure alternative. A volte, soprattutto per alcuni casi limite, si è generata molta confusione. Si sono verificati casi in cui le famiglie hanno fatto ricorso al giudizio di magistrati per accedere a terapie sperimentali. Si sono sollevati polveroni mediatici che non hanno fatto altro che alimentare la diffidenza nei confronti della medicina “protocollata”.

«La prima cosa che posso dire è che le famiglie devono affidarsi ai medici e non rincorrere cure alternative, metodi non scientificamente provati, santoni del momento che cercano di vendere cure. Solo così il genitore può avere la speranza di salvare il proprio bambino».

Come ti sei avvicinato alla ricerca? 

«È avvenuto tutto in maniera casuale. La scintilla è scoccata dopo essermi diplomato: venni a sapere dell’esistenza di una nuova facoltà, Biotecnologie, era stato istituito allora il primo corso di studi. Ed è stato a Biotecnologie che ho capito che avevo l’opportunità di fare il ricercatore. Da quel momento in me è cresciuta la passione per la ricerca, gli eventi mi hanno portato a studiare le malattie complesse prima e i tumori del bambino poi».

Un percorso in ascesa quello di Mario Capasso. Un dottorato di ricerca. Poi gli Stati Uniti dove studia le cause genetiche del neuroblastoma. In America fa un lavoro importante, pubblicato su una rivista di alto impatto, che gli fa vincere il “Guido Paolucci International Award” come migliore pubblicazione in ambito pediatrico. Ritorna dagli Stati Uniti e vince uno dietro l’altro progetti altamente competitivi finanziati da fondazioni e da associazioni private. Crea un gruppo di ricerca, diventa un ricercatore universitario. Capasso negli USA aveva grandi possibilità, ma è voluto tornare a Napoli.

Non sei un “cervello in fuga”. Perché?

«Per me è stata una sfida: portare qui le competenze acquisite in America e creare un gruppo di ricerca valido a livello internazionale. Mi ero riproposto di aspettare due anni e se non fossi riuscito ad ottenere fondi, sarei tornato negli Stati Uniti. Invece ho ottenuto i finanziamenti e sono riuscito a creare un gruppo di ricercatori che studiano i tumori del bambino. La via facile era rimanere lì. Forse avrei avuto maggiori riconoscimenti, ma mi piacciono le sfide e soprattutto volevo fare qualcosa per la mia città. Sono tornato a Napoli è per far capire che se ci sono forza, passione e volontà, anche in una realtà difficile come Napoli, si riesce».

Difficoltà probabilmente comuni anche al resto d’Italia, forse più grandi a Napoli. Sempre un problema di soldi?

«In Italia è difficile trovare fondi per la ricerca. Le istituzioni investono pochissimo e la burocrazia rallenta il nostro lavoro. Ci sono alcune leggi che limitano la nostra azione sull’uso di modelli animali e di cellule staminali embrionali. Quindi un ricercatore italiano parte svantaggiato rispetto ad un ricercatore di qualsiasi altra città europea. La maggior parte dei fondi arriva da associazioni come Airc, che investono molto in ricerca e ci permettono di portare avanti il nostro lavoro. Fare beneficenza in tal senso è molto importante, perché è un investimento non solo per chi oggi è ammalato di tumore, ma anche per i nostri figli, i figli dei nostri figli, per le future generazioni».

ilnapolista © riproduzione riservata