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Condò: «Il Sarrismo, l’evoluzione della controcultura di Sacchi»

Il commento di Paolo Condò sulla Gazzetta: «A trent’anni esatti di distanza, due filosofie lontane dal calcio italiano folgorano e competono per il titolo».

Condò: «Il Sarrismo, l’evoluzione della controcultura di Sacchi»

Trent’anni dopo

Gioca sulla ricorrenza, Paolo Condò: trent’anni fa, esattamente trenta, il Sacchismo arrivò sul proscenio della Serie A. Era il Milan degli olandesi, ma il punto non è questo quanto il senso storico di una filosofia tutta nuova con vista scudetto. Sulla Gazzetta di oggi, c’è un commento che fa il paragone/parallelo tra la stagione 1987/88 e il Sarrismo in lotta per lo scudetto. Trent’anni dopo, appunto.

Scrive Condò: «La strada per il Napoli è ancora lunga e difficile, a partire dal match di stasera contro l’Inter – che nello specchietto sembra più lontana di quanto in realtà sia, vale a dire a portata di sorpasso – per proseguire col prevedibile rilancio della Juve e magari di qualche altra candidata. Erano trent’anni che una squadra italiana non meravigliava tutti – Guardiola l’ultimo folgorato – per la qualità “olandese” del suo gioco. E quindi per la sua distanza da canoni italianisti, compresi quelli più evoluti per stare al passo coi tempi».

Condò scrive al di là del trofei, nel senso che sa e riconosce che alla fine la percezione di Sarri dipenderà da quanto riuscirà a riempire la sua bacheca. Per il momento, però, c’è questo inizio di stagione che vale comunque le copertine. E un paragone possibile, anche se «il Milan di allora e il Napoli di oggi sono squadre diverse – trent’anni non passano invano – e ha ragione chi vede nel ciclo catalano di Pep un punto di riferimento tattico più vicino. Ma senza il sacchismo oggi non esisterebbe il sarrismo, l’evoluzione della specie di una filosofia rivoluzionaria: il calcio come intelligenza collettiva – l’ha ben scritto Sandro Modeo – una squadra che si muove in base a connessioni memorizzate, come un branco di pesci o uno stormo di uccelli.

La cosa in comune

Condò individua la grande differenza che contraddistingue i due cicli rispetto al resto delle esperienze tattiche: «L’aspetto più curioso, probabilmente rivelatore, è il fatto che principi di gioco così complessi, e così bisognosi di un apprendimento lungo e distante dalla tradizione, siano stati sviluppati in Italia da allenatori privi di un passato importante da calciatore. Altrove è stato diverso, e basterà citare appunto Guardiola, o a maggior ragione Johan Cruijff, che nella combinata giocatore-allenatore può essere considerato la più grande figura calcistica della storia. In Italia, invece, ci sono voluti due uomini venuti dal nulla. Sia Sacchi che Sarri hanno giocato soltanto a livello dilettantistico, ed entrambi sono arrivati all’allenamento passando per altri mestieri».

Gli esempi di grandi tecnici italiani riguardano soprattutto ex grandi o buoni calciatori (Lippi, Ancelotti, Capello, oggi Allegri). Condò trae le sue conclusioni: «Ne consegue che il calcio diverso dalla nostra cultura non sia applicabile da chi l’ha giocato – che infatti cita sempre la qualità dei giocatori come elemento risolutivo delle partite – ma solo da chi l’ha studiato da fuori. A patto di possedere il carisma necessario per imporlo a uno spogliatoio». E non è poco.

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