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Romanzo napolista / Nell’estate del 1929, La Cruz salpò per Napoli

Quinta puntata del romanzo napolista di Pasquale Guadagni. Compare Reginaldo La Cruz.

Romanzo napolista / Nell’estate del 1929, La Cruz salpò per Napoli

In Tessaglia, come in ogni altro angolo del mondo in cui il football andava imponendosi come sport e attrazione di massa, era invalso considerare la mobilità degli allenatori sulle panchine delle varie squadre non meno logica e naturale della compravendita dei calciatori. A quei tempi il mercato era dominato dalla totale vacanza di un disciplinare, era facile che un terzino fosse venduto per alcuni capi di bestiame o che un presidente, invaghendosi delle acrobazie di qualche bomber, lo convincesse a passare di squadra regalandogli una pistola d’acciaio cromato, di quelle che arrivavano solo clandestinamente dall’America. In questo tipo di contrattazioni, Egeiros Onassis era all’avanguardia e anche molti suoi diretti avversari gli riconoscevano di essere stato il primo a pensare all’artiglieria come pregiata merce di scambio per assicurarsi i calciatori che avevano più fegato.

La squadra di Onassis aveva però una strana particolarità, riguardo alla quale i tifosi avversari la irridevano impietosamente ovunque andasse a giocare in trasferta: Onassis, che ne inventava sempre una più del diavolo per comprare calciatori che voleva o che per dispetto voleva solo sottrarre alla concorrenza, era invece rigidissimo nel considerare il mandato dell’allenatore non meno vitalizio di quanto era il suo mandato di presidente. Da quasi trent’anni, sulla panchina del Dinamis sedeva Reginaldo La Cruz, che ai tempi in cui la maglia numero uno diventò di Castano aveva appena varcato i sessanta. La Cruz era un diavolo messicano che da ragazzo aveva fatto più del necessario per vedersi riconosciuta la patente di fuorilegge e ricercato.

A Tijuana, sul confine con la California, dove era nato, i ragazzi più svegli e sfrontati sapevano bene che imbracciare un fucile a canne mozze era più efficace che andare a scuola per farsi rispettare alla svelta, e Reginaldo La Cruz era uno di questi. Così, il futuro allenatore del Dinamis, negli anni della sua formazione, fu un temuto ricettatore, contrabbandiere, sfruttatore di prostitute, razziatore di cavalli, pistolero, rapinatore e indovino. Perfino indovino! Infatti, fin dall’infanzia, era cresciuto osservando le arti divinatorie praticate dalla nonna di origini indie e, quando si diede agli affari, per darsi una riconoscibilità nella feccia indistinta di Tijuana, fece girare la voce delle sue facoltà divinatorie. In breve divenne un’autorità anche in quel campo e in casa c’era un continuo viavai di assassini, prestanome, allibratori che chiedevano consigli per vederci più chiaro.

Come tutti i fuorilegge, La Cruz era perseguitato da molte ossessioni, più o meno moleste, per esempio riusciva a dormire soltanto nella stalla, sdraiato sul suo cavallo, a pancia in giù e con gli arti penzoloni. Ma il suo chiodo fisso, più di ogni altra cosa, erano gli zapatisti. La terra si conquista con il piombo, non con il marxismo! – era la frase che soleva sbraitare a tavola o prima di giustiziare qualcuno. A Tijuana i suoi scagnozzi, quando lo vedevano delirare, sapevano bene che per placarlo non c’era modo migliore che raccontargli barzellette scurrili su quanto erano puttane le donne degli zapatisti. Eppure nessuno avrebbe scommesso un peso sul fatto che Reginaldo La Cruz, a causa degli zapatisti, di lì a poco avrebbe chiuso per sempre con il Messico.

Una mattina, al risveglio, La Cruz scese dal suo cavallo e, come suo solito, iniziò a battere alcune palme secche contro l’altarino con il ritratto della nonna india, per capire se quel giorno sarebbe stato meglio tornare a dormire o andare in giro con i colpi in canna. All’improvviso iniziò a percuotersi selvaggiamente con quelle palme, ad urlare e divincolarsi come se un demonio gli fosse entrato in corpo. Allarmati dalle urla, accorsero un paio di scagnozzi con l’artiglieria spianata e uno di loro iniziò a sparare all’impazzata ad occhi chiusi, prima di rendersi conto che La Cruz era solo e si era atterrato con le sue mani. Nella stalla ci furono pochi, interminabili secondi di tempesta di piombo, poi il pistolero riaprì gli occhi e vide il cavallo a terra, abbattuto dalla raffica. La Cruz, un attimo prima che partissero le pallottole, con un colpo di reni si era scaraventato dietro dei sacchi di biada, riuscendo così a mettersi fuori bersaglio. Quando rialzò lo sguardo, riconobbe i suoi uomini, scattò in piedi ed esclamò: “Allora siete due fottuti zapatisti! Vi ho dato una casa, un lavoro, e voi giocate agli zapatisti col mio cavallo!” Ma capo, – fece quello che non aveva sparato – noi abbiamo sentito urlare e… Non fece in tempo a finire, che partirono altri due pallettoni, stavolta dalle canne mozze del fucile di La Cruz. Furono sufficienti a finire i suoi uomini.

Reginaldo, con una palma ancora stretta nella mano sinistra, andò a sdraiarsi per l’ultima volta sul suo cavallo, che agonizzava penosamente, e ringraziò la nonna per averlo informato in tempo utile del tradimento dei due. Poi osservò i cadaveri a terra e iniziò a fare furiosamente avanti e indietro nella stalla, chiedendosi da quanto tempo proprio a casa sua avesse preso corpo un avanposto dei rivoluzionari e in cosa avesse sbagliato per non farsi mettere in guardia dall’oracolo.

Quando fu fuori dalla stalla, alzando gli occhi sul cielo di Tijuana, che iniziava a riempirsi di luce rovente, disse con voce rotta dal pianto: “Se neanche più nell’oracolo riesco a vederci chiaro, allora devo cambiare aria, prima che gli zapatisti riducano le donne del bordello come il mio cavallo”.

Dopo quel giorno, a Tijuana nessuno vide più Reginaldo La Cruz e su di lui iniziarono a fiorire le leggende più fantasiose, fomentate sia da chi credeva che i suoi lo avessero tradito, sia da chi era certo che se n’era scappato solo perché era un pazzo maniaco. In particolare, negli anni seguenti si accreditò una storia secondo cui quel diavolo viveva in totale solitudine da qualche parte nel deserto messicano, passando le giornate sul ciglio di qualche carrozzabile in attesa che passasse una diligenza di rivoluzionari. Si diceva che era riuscito ad assaltarne molte e che dopo aver sterminato i viaggiatori, requisita l’artiglieria e lasciato ogni altro bene che nel deserto non gli sarebbe servito, usava dormire su quei cadaveri zapatisti, per vendicare l’abbattimento del suo fido destriero.

In realtà le cose andarono molto diversamente. La Cruz passò il confine con gli Stati Uniti d’America già poche ore dopo aver fatto fuori i suoi uomini. Alla linea di frontiera arrivò armato fino ai denti, ma poiché sul modulo di immigrazione, alla voce ‘professione’, scrisse ‘investigatore privato antizapatista’, riuscì ad ottenere all’istante il permesso d’ingresso, senza che gli fosse confiscata una sola pallottola. Trascorse alcuni anni in un posto di frontiera del Texas a schedare per conto del distretto federale cowboys in odore di bolscevismo e di sicuro era avviato ad una tranquilla carriera, gli sceriffi della zona se lo contendevano a cena e dopo il dessert apprezzavano le sue tirate tribunizie contro i democratici di Austin e di Dallas. Ma in fondo La Cruz aveva una nostalgia enorme del passato, rimpiangeva l’asado di casa sua, rispetto al quale quello texano gli sembrava una caricatura, e lo stesso discorso valeva per la birra. Così, quando lo sceriffo della sua contea gli propose un trasferimento sulla costa atlantica, decise di andarsene alla stessa velocità con cui aveva lasciato Tijuana. Figliolo, – gli fece lo sceriffo – qui con i rossi possiamo farcela da soli, l’America ora ha bisogno di te a New York, dove ogni giorno sbarcano dall’Europa migliaia di comunisti!

La sera prima della partenza, La Cruz consultò l’oracolo a modo suo, come del resto aveva sempre fatto, e dovette vederci ancora una volta brutti presagi visto che, su due piedi, decise che, una volta a New York, anziché presentarsi negli uffici cui era stato destinato, si sarebbe immediatamente imbarcato per l’Europa. Durante il viaggio verso l’Atlantico, che durò sedici giorni, La Cruz avrebbe concluso che l’oracolo gli aveva indicato il vecchio continente perché, se a New York sbarcavano migliaia di rossi ogni giorno, sicuramente, nel giro di qualche decennio, in Europa, e perfino in Russia, non ci sarebbe stato più un solo comunista. Inebriato da questa congettura, che gli parve indiscutibile, si lasciò poi cullare nella traversata oceanica su un transatlantico diretto a Napoli. In cielo splendeva rovente il sole d’estate del 1929. (5-continua)

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