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Bruno Siciliano, il padre mondiale della robotica che ha preferito Napoli a Stanford

Bruno Siciliano, il padre mondiale della robotica che ha preferito Napoli a Stanford

In California, sarebbe su tutte le guide. Lui e il suo Prisma Lab. Come in Francia e in tanti altri paesi dell’Occidente. A Napoli, il laboratorio che gran parte del mondo ci invidia è al piano inferiore di via Claudio, Fuorigrotta, di fronte allo stadio San Paolo. Non poteva esserci sintesi più efficace per Bruno Siciliano, ingegnere (ma ingegnere è riduttivo), uno dei padri mondiali della robotica, tifosissimo del Napoli. Più che tifoso, un “malato”. E un anti-juventino viscerale. Incontrarlo è stata un’esperienza straordinaria. Un uomo che ti travolge con la sua passione. Per il suo lavoro, per la sua città, per la sua squadra del cuore, per la sua famiglia, per la musica, per i computer, per la cucina.

Anche noi del Napolista siamo colpevoli. Ci siamo accorti di lui per una delle sue ultime trovate: realizzare un robot che impari a fare la pizza, il suo nome è RoDyMan. Trovata che ha portato a Fuorigrotta reporter di tutto il mondo: dal Brasile alla Lettonia. E lo abbiamo cercato per un’intervista. Ci ha risposto prontamente, anche se poi ci ha confessato che non possiede smartphone. Ha un Nokia antidiluviano attaccato con lo scotch (incredibile ma è così!). «Non potrei avere smartphone, non ho il tempo. Sono un workoholic, lavoro 16 ore al giorno compresi sabato e domenica. E poi ammetto di avere una certa idiosincrasia per la Apple, non mi piace, troppo modaiola. Non uso Mac, io sono per Windows».

Trascorrere tre ore con Siciliano vuol dire uscire da via Claudio con la voglia di iscriversi a Ingegneria. Ma poiché noi siamo il Napolista – e lui ci tiene a farci vedere che siamo nei preferiti del suo pc all’università, pc che ovviamente ha come sfondo il logo del Napoli che lui mostra orgogliosamente all’estero – Siciliano muore dalla voglia di parlare di pallone. E quindi l’intervista oscilla da Pogliana a Lorenzo Sciavicco colui il quale Siciliano considera il suo maestro, da Maradona a Bernard Roth il luminare che lo avrebbe voluto con sé all’università di Stanford nei primi anni Novanta e cui lui disse no per rimanere a Napoli.

Perché la storia di Siciliano, 56 anni, è la storia di un napoletano di talento e di successo, un genio ambizioso e vanitoso (aggettivi suoi, genio è farina del nostro sacco), che è riuscito a coronare il suo sogno: realizzare a Napoli un centro di robotica di livello mondiale, capace di attrarre giovani ricercatori dall’estero, nonché di scrivere il libro più adottato nelle università di tutte il mondo (Stanford compresa) e più venduto al mondo, e di pubblicare la prima e unica enciclopedia mondiale della robotica (“Springer Handbook of Robotics”), di curarla con un collega di Stanford, e di vincere con questo testo il più importante premio per la letteratura scientifica mondiale: l’AAP Prose Award for Excellence in Physical Sciences & Mathematics. «L’Oscar delle pubblicazioni scientifiche, un riconoscimento non solo a me ma alla comunità robotica internazionale», confessa con comprensibile orgoglio. Sempre via Claudio, secondo piano col laboratorio a meno uno.

Sì, Siciliano ammette col sorriso sulle labbra, «che sì, sono più conosciuto all’estero che qui, ma non cambierei Napoli con nulla al mondo. Se sono diventato quello che sono, lo devo anche a questa città. E quell’anche non vuole affatto essere riduttivo. Lei mi prenderà per pazzo ma io credo in una superiorità genetica del napoletano. Abbiamo una marcia in più e la capacità di districarmi in poco tempo nelle situazioni più complesse è stata molto preziosa per me».

La mattinata con lui è una sottile battaglia tra lui che vuole parlare, o fa finta di voler parlare, soprattutto del Napoli e noi che lo spingiamo a dirci della sua vita professionale. Nulla è banale. «Il mio primo Napoli fu quello di Sivori, Bean, Barison, Panzanato, Zoff, Altafini. Ma soprattutto la mia prima trasferta fu un evento storico. Era il Napoli di Vinicio. Quel Lazio-Napoli del 6 dicembre del ‘75 in cui la curva cantò per la prima volta Oj vita mia dopo la vittoria grazie al gol di Boccolini che ci portò in testa alla classifica. La mia prima trasferta da solo, con l’autobus che al ritorno ruppe il motore all’altezza di Colleferro e tornammo solo grazie a un pullman di lavoratori di Cercola che si fermò sull’autostrada e ci caricò a bordo. All’epoca non c’erano i telefonini, arrivammo di notte a piazza Amedeo dove mio padre era lì da ore ad aspettarmi».

Il calcio, il tennis e la passione per la fantascienza, i libri di Asimov (fondamentali per far scoccare l’amore per la robotica), la cibernetica, l’ambizione di entrare all’Ibm. «Non ero uno smanettone, ero bravo in matematica sì, nelle materie scientifiche, ma non stavo lì a perdere ore tra amplificatori e baracchini come tanti altri. Non sono uno sperimentatore. Mi diplomai al Mercalli e mi iscrissi a Ingegneria nel 1977. Mi laureai cinque anni dopo. La mia ambizione era di andare a lavorare in America». La storia della sua vita è raccontata in un libro di Pietro Greco: “Sette storie eccellenti – I nipoti di Galileo”. Ci sono Alessio Figalli, Lucia Votano, Vincenzo Balzani, Elena Cattaneo, Pier Giuseppe Pelicci, Attilio Maseri, Giacomo Rizzolatti e lui: Bruno Siciliano. Un libro in cui, tra le altre cose, si scopre che nel 1974 il futuro padre della robotica andò in Germania – accompagnato da mamma e papà, casalinga e impiegato – a giocarsi i Mondiali di Subbuteo e uscì ai quarti di finale per un sospetto furto di un olandese.

Durante i suoi studi di dottorato di ricerca, Siciliano comincia già a partecipare ai primi convegni. E in uno di questi, a Udine, conosce Wayne Book che gli offre la possibilità di lavorare al Georgia Tech ad Atlanta. «Accettai, andare negli Stati Uniti era il mio sogno. Fu un’esperienza straordinaria ma ricordo anche la sofferenza di stare lontano da Napoli e dal Napoli. Sentivo la famiglia una volta alla settimana, la domenica, e loro sapevano che la prima informazione da darmi era il risultato del Napoli. Aspettavo i ritagli di giornale, del Mattino, di Sport Sud che mia sorella ogni settimana mi spediva. Leggevo il quotidiano, il Corriere della Sera, con sette giorni di ritardo nella biblioteca del Campus, mica c’era Internet. Quando Maradona segnò alla Juventus su punizione, mi chiamarono in via del tutto eccezionale». Rientrato dagli States e conseguito il titolo di dottorato nell’attesa di un futuro contratto di ricerca, ricorda Siciliano, la sua vita era al bivio. «Ebbi due offerte importanti. Mi chiamarono in Olanda, all’Agenzia spaziale europea, mi offrirono 6 milioni di lire al mese più una serie di benefit. E anche al Georgia Tech mi offrirono un posto da assistant professor a 45mila dollari. Il mio professore, Sciavicco, mi disse: “Se vai adesso, non torni più; sei già stato un anno fuori e qui più nessuno si ricorderà di te”. Mi macerai per una settimana, a Napoli avrei percepito un mese sì e due no 500mila lire. Ma alla fine decisi e rimasi qui. Non ho vergogna a dire che nella mia decisione pesò anche il Napoli. Pensai che sarebbe stato l’anno giusto, che finalmente avremmo potuto vincere lo scudetto e i fatti poi mi diedero ragione”.

Ebbe ragione sì, per motivi calcistici. La vita professionale, ovviamente, fu meno allettante. Ma lui socchiude gli occhi e regala un sorriso dei suoi. «Le radici culturali sono importanti. Sono orgoglioso di essere rimasto napoletano. Ho altri amici che sono andati a vivere fuori e posso dire che non sono più napoletani, sono cambiati. Io no. Forse qualcuno interpreterà male le mie parole, ma credo che è anche grazie al mio essere napoletano che sono entrato negli Stati Uniti con un passaporto scaduto o ancora sono riuscito a passare la dogana a Villa Opicina recuperando una marca da bollo a casa di un friulano che avevo conosciuto dieci minuti prima e che non ho mai più visto in vita mia. Marca da bollo che abbiamo staccato col vapore dal suo passaporto e poi attaccato sul mio. E tengo a precisare che allora il confine con la Jugoslavia non era una passeggiata. Napoli mi ha dato questo e io le debbo molto. È una città che ti allena alla complessità». 

L’ultima scelta, forse la più sofferta, la fece quando il professor Bernard Roth – che poi sarebbe diventato suo grande amico – gli comunicò che era tra i tre prescelti per un colloquio finale a Palo Alto, California. In ballo c’era un contratto di assistant professor per almeno sei anni all’Università di Stanford. Vinse ancora Napoli. Napoli, la sua fidanzata che sarebbe diventata sua moglie, i suoi affetti, e il Napoli di Maradona. A un certo punto, il professor Siciliano non resiste, si alza, prende il libro di testo da lui scritto, quello di robotica più venduto al mondo, tradotto anche in greco e in cinese, e dice: «Questo l’ho scritto prima in inglese e sa perché? Perché in Italia la McGraw-Hill non volle pubblicarmelo. Allora io, che sono capa tosta, spedii tutto alla sede di New York. Lo avevo scritto in inglese e lo pubblicai lì. Quando in Italia mi chiesero la traduzione, mi feci pagare i diritti. Quattro milioni di lire. Non me ne fregava niente dei soldi, ma era per l’affronto subito. E quel libro, questo, è il libro di testo all’università di Stanford. Ci sono arrivato lo stesso, anche lavorando a Napoli».

E a Napoli Siciliano ha creato il Prisma Lab. «È nato agli inizi degli anni Novanta, negli ultimi otto anni abbiamo creato progetti che hanno ottenuto 8,5 milioni di euro di finanziamenti. Con me lavorano due professori, e una ventina tra assegnisti, dottorandi e collaboratori. Ci chiamano dall’estero, vengono perché fa curriculum. Sembra una barzelletta ma qui con me ho un francese, un argentino, un messicano, un coreano, un giapponese. Ho avuto un ricercatore turco, un autentico genio della matematica che ora è al Mit di Boston e lavora lì anche grazie alle referenze del Prisma Lab».

Siciliano non ama fare polemica, si capisce. Glissa spesso con sorrisi sornioni. È un positivo. Ma ovviamente sa come va il mondo e non nega le tante difficoltà che si incontrano a lavorare a Napoli e in Italia. «È tutto diverso. Potrei fare mille esempi. Negli Stati Uniti non esiste il concetto di copiare e far copiare, vige il principio “mors tua, vita mea”. Sono spietati. Ti prendono se vali, altrimenti ti sbattono fuori. Ma ho anche imparato tante cose lì. Sembra una cretinata ma negli Stati Uniti quando telefonavi a gettone, il centralino ti concedeva un credito a fiducia quando avevi finito i soldi. All’inizio ricordo che fuggivo sempre, credevo di essere più furbo. Poi, una volta, ricordo che persi venti centesimi per un guasto del telefono pubblico. Appena riagganciai, squillò ed era il centralino che mi chiese le generalità e l’indirizzo, si scusarono per l’inconveniente. Una settimana dopo, ricevetti a casa l’assegno di venti centesimi. Da allora, non telefonai più a scrocco».

Quando il ghiaccio è già bello che rotto, Siciliano cede a una nostra insistenza: creare un robot per fare la pizza è stata una provocazione, a noi lo può confessare. Del resto, anche noi del Napolista ci siamo accorti di lei così. «Sì, certo che lo è stata, è stato anche un modo per dire: “così vi accorgete di noi e di quello che facciamo”. Ma in fondo va bene così. Quando ho scelto di rimanere qui, ho messo in conto tutto. E non tornerei indietro per nessun motivo. Quando giro per Napoli con la mia Vespa, sono l’uomo più felice del mondo. Ho voluto dimostrare a me stesso, e non solo, che i risultati si possono raggiungere anche da qui. Lo dico spesso anche a mio figlio che desidera andare a studiare alla Bocconi. Libero di andarci ma gli ripeto: “pensaci, le radici sono importanti”. Sembra strano per uno che come me che studia e crea robot da oltre trent’anni ma io credo che la differenza la facciano le persone, io amo il genere umano e ho una grande fiducia in esso».

C’è solo una categoria che Siciliano odia. Gli juventini. Il nipote bianconero lo chiama il bastardino. Mostra con orgoglio la sciarpa “Juve merda”, racconta delle trasferte a Doha e a Pechino dove riuscì a combinare l’invito all’Accademia di scienze cinesi con la Supercoppa che poi perdemmo contro la Juventus («Ci fu scippata», dice). E ci tiene a raccontare di quando andò allo Juventus Stadium con i suoi due ragazzi (anche la terza è tifosa) e il bastardino indossando la maglia numero di 10 con lo sponsor Mars. «All’esterno dello stadio qualche juventino ci diede fastidio, mi innervosii molto, allora dissi ai miei figli di entrare. Ma non mi accorsi di un cordolo del parcheggio e inciampai cadendo rovinosamente: mi lussai il gomito, un dolore infernale. Loro entrarono dopo aver chiamato un’ambulanza. Andai all’ospedale. Ricordo che a bordo l’infermiera aveva preso le forbici per tagliare la maglia di Maradona. Mi alzai di scatto, la fermai. Non dico il dolore che provai nello sfilarmi quella maglietta pur di non profanarla. Un dolore da lacrime ma la maglia di Diego è sacra, non avrei mai potuto consentire lo sfregio delle forbici». Va da sé che la prima scritta su quel gesso fu “Juve merda”.

Siciliano, che è orgogliosissimo del rapporto con i suoi studenti (che lo adorano), ci mostra uno screenshot della pagina del gruppo facebook creata (a sua insaputa) dagli allievi del corso di Ingegneria dell’Automazione da lui coordinato. L’immagine raffigura Siciliano di spalle sul bordo della piscina al 28esimo piano del Torch Hotel di Doha (dove alloggiava il Napoli), due ore prima della finale di Supercoppa, indossando una maglietta del Napoli con la scritta “Doha IO Presente” che richiama il numero sacro del D10S.

Di aneddoti così, il professor Siciliano ne racconterebbe a decine. Come quella volta in cui venne chiamato da una radio americana e luì riuscì in diretta a pronunciare “Juve merda”; o, ancora, mostra orgoglioso un articolo della Suddeutsche Zeitung su Calciopoli che lo cita come a un passo dal coronare il sogno della sua vita: vedere la Juventus in serie C. Quando parla del Napoli, gli occhi di Siciliano si illuminano. Si rabbuia quando cita il rettore, il professor Gaetano Manfredi. «Tra di noi c’è grande feeling, ma è juventino», dice con tono grave. «Eppure suo padre è tifoso del Napoli». Non possiamo non chiedergli di Aurelio De Laurentiis. «Lo stimo molto come manager e direttore d’impresa. Ha portato a Napoli una cultura imprenditoriale e non era affatto semplice. Preferisco lui a Thohir e a tanti altri. Però non ha la passione calcistica, è innegabile, si vede lontano un miglio e questa è una differenza abissale tra lui e noi tifosi. E poi un presidente dev’esserci sempre. Odio la Juventus ma Marotta e Agnelli sono sempre presenti, quando si vince e quando si perde. Lui, quando le cose vanno male, si eclissa».

Paradossalmente, abbiamo parlato poco dei robot. Ci mostra un bel video in cui è condensata tutta la robotica al servizio dell’uomo, c’è anche il pizzaiolo. Ma ci sono tante altre cose. Tutto si può fare grazie ai robot. «C’è anche un uso sociale dei robot, pochi lo sanno. Sono utilizzati per aiutare i bambini autistici». Il più grande costruttore di robot in Italia è la Comau. «Sa dove ha sede? A Torino, juventini. E sa chi a chi chiedono il controllo dei robot? A noi, a Napoli, perché nella robotica industriale siamo i migliori». Ma una delle più grandi soddisfazioni della sua vita gliel’ha regalata Bernie Roth il professore che lo avrebbe voluto a Stanford, un newyorchese innamorato di Napoli che volle festeggiare i suoi cinquant’anni di matrimonio a casa sua, nel centro di Napoli. «Non mi disse che era il loro anniversario di nozze, me lo rivelò a mezzanotte. “Altrimenti, confessò, ci avresti portato a cena fuori mentre noi volevamo festeggiare a casa vostra”. Ecco, la considero la più bella manifestazione d’amore». Se Napoli non va a Stanford…

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