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«Papà, perché sei italiano e non tifi Italia?»

«Papà, perché sei italiano e non tifi Italia?»

Cari Napolisti,
dico la mia sulla questione tifo pro o contro. Premetto che, a differenza del buon Gallo, in quella semifinale tifai Italia e non Argentina. E dopo l’eliminazione piansi. Ma non avevo ancora 13 anni, e mi sentivo italiano.

Molti anni dopo i miei sentimenti verso questo Paese disastrato sono cambiati, e da tempo. Sono cresciuto, ho conosciuto gente, ascoltato gente, scritto qualche libro e letti molti di più. Soprattutto ho vissuto in molte città del nord e dal 2003 vivo felicemente a Verona. Sì, avete letto bene, l’avverbio non è un errore e l’ho aggiunto anche se Stephen King sostiene che sia sbagliato il loro utilizzo. A Verona io ci sto bene, ma c’è un però.

I veronesi sono diversi dai napoletani, e questo è pacifico. Ma anche dai romani, dai friulani, dagli emiliani e questi ultimi sono agli antipodi dei romagnoli. Se vai a Torri del Benaco conoscerai l’odio per la città di Garda, che pure dista solo 4 km. Un po’ mi ricorda quando vivevo a Portici, e guardavamo con sospetto quelli di Ercolano. In verità io credo che non siamo mai usciti dall’epoca dei Comuni, il campanilismo regnante in Italia mi impone di pensare che questa benedetta o maledetta Unità non si sia mai realizzata. Per citare qualcuno più grande di me, ci siamo limitati a fare l’Italia ma gli italiani sono ben lontani dal prendere coscienza del loro essere nazione (e chi lo sa se ciò mai avverrà).

Da Sacchi in poi non sono più riuscito a tifare Italia. Sì, sarei ipocrita a dire che non ho gioito con la prima nazionale di Lippi (finale guardata in aeroporto, di ritorno dal viaggio di nozze, fra l’altro). Ma in questo sono molto italiano medio: le amichevoli degli Azzurri non so cosa siano, le partite di qualificazione dovrebbero tenersi a campionato fermo e le soste, dannate, spezzano il ritmo del campionato. E ho iniziato questi Europei nell’indifferenza, lavorando mentre Conte cazziava i suoi dalla panchina.

Poi è successa una cosa. Mio figlio, che ha quasi 8 anni e programma la sveglia per vedere l’Argentina in Coppa America, si è presentato da me col completino dell’Italia (numero 10 e scritta “Riccardo” sulle spalle). E mi ha chiesto: «Papà, ma se sei italiano, perché non vieni di là a tifare con me?»

Ve lo giuro, sono rimasto imbambolato. Gli ho afferrato quella manina che mi tendeva e l’ho seguito in trance. Lui si è seduto, sgridato dalla mamma perché era a 50 centimetri dal televisore ma niente, urlava, se la prendeva quando perdevamo palla, scattava dalla poltrona quando ci facevano fallo e non gli ho mai sentito dire una parola contro l’arbitro. Senza rendermene conto ho fatto caso che a un certo punto impiegavo verbi come “attacchiamo”, “subiamo”, “ripartiamo” e mi sono sentito coinvolto in un sentimento di appartenenza, credo per merito di quegli occhioni verdi che brillavano mentre Giaccherini domava quel pallone scagliato in area dall’odiato Bonucci. E ho risvegliato quel bambino che a forza di piangere per i rigori falliti da Donadoni e Aldo Serena si era atrofizzato alla sconfitta, sostituendola con un male assai pericoloso: l’indifferenza.

I bambini hanno la capacità di semplificare ciò che noi adulti rendiamo articolato. Sono italiano, tifo Italia; ci sono gli Europei, mamma mi compri la tromba da stadio? Perepepepe, e all’improvviso la nostra difesa (visto? L’ho fatto di nuovo: nostra) non è più quella della Juve.

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