Seduti in platea, il teatro San Carlo ribolle di un’elettricità particolare. C’è attesa, la senti. La percepisci, è quella roba tipo Capodanno: sai che sta per accadere qualcosa di speciale. Accanto a noi, passano due ragazzini di dodici anni. Forse undici, ma conta poco. Uno in camicia bianca, l’altro in camicia azzurrina. Non riusciamo a capire se sono napoletani, anche perché c’è un dettaglio nel loro parlare che non è tipicamente partenopeo. Uno dei due chiama la madre: «Mamma! Mamma! Fai presto, che il Fede incomincia. Stasera c’è il Fede». È roba milanese, ma ha la dose di colloquialità che il personaggio e professionista Federico Buffa merita sulla fiducia. Ci piace, lo useremo anche noi. Ieri sera siamo andato a guardare il Fede.
A guardare, sì, perché il suo non è solo un racconto da ascoltare. C’è tutto: c’è la voce, ci sono i colori, ci sono anche le immagini su un videowall. Ci sono le luci, che fanno sempre il loro effetto. E poi, c’è la musica. La classica musica del Fede: piano, fisarmonica e basta. La storia è quella bellissima delle Olimpiadi del 1936, quelle di Hitler a Berlino. C’è dentro tutto, nelle due ore di racconto: c’è lo sport, protagonista assoluto. Ma c’è anche storia della politica, della diplomazia, del costume e della società. Persino una spruzzata di architettura, con il racconto del marmo dell’Olympiastadion di Berlino e dell’architetto futurista che l’ha inserito per far piacere al Fuhrer. Cercando su Wikipedia, abbiamo scoperto che si chiama Werner March.
Si ride, si pensa. La cosa più importante, però, è che si sa. O meglio: si va a sapere, si assumono informazioni che prima non si possedevano. È questo il bello delle due ore e rotti passate col Fede. Che non ti annoia, e che cambia registro quando serve. A volte divaga un po’, ma è un dazio che paghi volentieri.
Dovessimo fare una recensione oggettiva, statica, “classica”, diremmo di aver assistito a una bella serata di cultura. Sportiva, ma non solo. Cultura generale, divulgazione storica. Roba che per qualcuno potrebbe risultare un po’ pesante (tipo qualche signorina, un po’ arrabbiata uscendo dal teatro sottobraccio il fidanzato), ma che per gli appassionati del genere è come i Pink Floyd per chi ama il progressive rock: perfetto. La narrazione è divisa in più sequenze, spezzoni e spaccati dei quindici giorni dei Giochi del 1936. Ci sono americani, tedeschi, italiani, austriaci, asiatici. È il bello delle Olimpiadi, la trasversalità storico-geografica, e diventa facilmente il bello dello spettacolo. La parte finale è dedicata ai due miti di quell’edizione: Jesse Owens e Sohn Kee-chung, che però gareggiò e vinse con il nome di Son Kitei. Il primo fu quattro volte medaglia d’oro (100, 200, 4×100 e salto in lungo), il secondo era un maratoneta coreano quando la Corea in realtà non esiste, perché fa parte del Giappone. Corre per la squadra nipponica, vince e durante la premiazione nasconde la bandiera sulla tuta con una quercetta che il regime nazista vuole consegnare a tutti i vincitori.
Il resto della serata vive sull’aneddotica e sulla cultura tipica (e spaventosa) del Fede che dopo la fine dello spettacolo saluta insieme al suo piccolo cast (due musicisti e una cantante) e incassa un lunghissimo applauso. Pienamente meritato, perché il Fede ha colpito ancora. E l’ha fatto bene, in un teatro pieno di giovani e giovanissimi che apprezzano questo modo così bello di fare giornalismo. E di fare cultura, of course.
I ragazzini incrociati all’inizio, sono usciti prima. Forse per loro era troppo tardi, lo spettacolo è finito poco prima delle due. Avranno modo e tempo di rifarsi, perché le storie sono tante. Anzi, non finiscono mai. E meno male, se poi sono raccontate così.