Il 17 aprile è una data che non porta bene al Napoli. Cinque anni fa, era il 2011, si infranse il primo sogno scudetto dell’era De Laurentiis: perdemmo 2-1 in casa con l’Udinese (sempre loro) e Inler non esultò al gol che ci condannò alla sconfitta. Allora, inconsapevoli, qualcuno gioì perché quella mancata esultanza fu la conferma del suo imminente arrivo. Oggi, 17 aprile 2016, si chiude anche formalmente il campionato di serie A con la Juventus per la quinta volta consecutiva campione d’Italia e il Napoli secondo in classifica con cinque punti di vantaggio sulla Roma che ha pareggiato a Bergamo 3-3 con l’Atalanta e sfoderato un Dzeko in formato Pancev prima che Totti ristabilisse le gerarchie calcistiche.
Ma torniamo a noi. Addio scudetto, quindi. Scudetto già perduto a Udine e di fatto smarrito nella settimana che precedette lo scontro diretto del 14 febbraio allo Juventus Stadium. Lo perdemmo lì. Eravamo più forti sul campo, e basta. Perché essere più forti sul campo non basta, non può bastare. Ci vestimmo da Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, l’orgoglio di un popolo e tutte quelle menate e perdemmo. Non ci siamo più ripresi. Da allora, in trasferta, abbiamo vinto solo a Palermo. Sconfitti a Udine e a Milano con l’Inter e un pareggio a Firenze dopo essere stati travolti nel primo tempo. In mezzo, la bufera mediatica e di popolo per lo scandaloso arbitraggio di Rizzoli nel derby di Torino.
Da allora, sono accadute soprattutto due cose. Antitetiche tra di loro. La prima è che Napoli ha sorprendentemente vinto la battaglia mediatica, grazie soprattutto all’ormai celebre fermo immagine di Carlo Zampa con l’incontro ravvicinato tra Bonucci e un Rizzoli in rottura prolungata. La seconda è che Napoli non si è accorta della vittoria mediatica e ne è stata travolta. Perché bisogna avere anche il fisico per fare le guerre. La testa l’abbiamo persa noi. A Udine, con Higuain furioso per l’espulsione. E poi ieri sera a Milano contro l’Inter, dove ci siamo dissolti dopo aver subito un gol in fuorigioco al quarto minuto. Nel bel mezzo della battaglia, cominciata di fatto verso Natale e protrattasi fino a San Valentino, abbiamo cominciato a mostrare segnali di cedimento. La penombra, il giocare prima (a proposito, ieri abbiamo giocato prima), gli orari (ieri Spalletti ci ha sfottuti) e un’immagine di eterni lamentosi che ha finito col logorare noi stessi. Oggi siamo a meno nove dalla Juventus e di fatto non sappiamo nemmeno perché: in mano ci è rimasta solo la lamentazione. Una conclusione che offende innanzitutto noi, per il gioco espresso e per il grande campionato disputato.
John McEnroe aveva, tra le altre, una formidabile qualità: riusciva a sdoppiarsi, era l’altro da sé che inveiva, protestava, dava vita al moccioso; il John con la racchetta lo osservava e poi tornava sulla linea di fondo per tendersi ad arco e servire un ace. Noi no. Non siamo attrezzati. Ci siamo sentiti realmente vittime di un complotto e addio. E ha cominciato il Napoli. Ha cominciato Sarri. Il grande Sarri. E la squadra non ha retto. Ha continuato la società con i comunicati successivi alla riduzione di una sola giornata della squalifica di Higuain e alla partita di ieri sera. Così non ne usciamo più. E finiamo col parlare da soli, magari davanti allo specchio: “Dici a me? Stai parlando con me?” Ma non abbiamo pistole in mano né tantomeno siamo Travis. Tra i pochi che non hanno abbandonato la loro posizione in trincea vanno segnalati Marco Ciriello e Mario Colella.
A un certo punto, non si capisce perché, ci consegniamo. Come se ci considerassimo poco. Quando vinciamo, è un miracolo. Perché abbiamo considerato un miracolo il Napoli di quest’anno. Come se fossimo arrivati dalla Lega Pro. E ricadiamo sempre negli stessi errori. Il duello con la Juventus lo abbiamo perso nella testa. E ovviamente lo abbiamo perso prima a Castel Volturno. Ma lo abbiamo perso perché manca un cuscinetto tra Castel Volturno e l’ambiente Napoli. Un cuscinetto mentale che metta realmente una distanza tra la squadra e il fiume dei bar sport. Fin quando questo non avverrà, non vinceremo mai. Per dirla alla Nanni Moretti.
E francamente non è giusto. Per la storia recente di questa società. Per la squadra messa su in questi anni. Per il gioco espresso da questo Napoli. Ma sono ormai cinque anni che siamo lì e perdiamo il tie-break. Evidentemente, serve qualcos’altro. Magari un direttore generale – preferibilmente non più a Sud della Normandia (è una provocazione, però serve) – una società che mantenga i nervi saldi nei momenti che contano e un lavorio quotidiano, muccio muccio, che magari riesce a portarti Bonucci in tv da Cattelan nella settimana più calda senza lasciarsi trascinare nella polemica strillata.
Si può cominciare difendendo il secondo posto, mostrandosi orgogliosi del risultato raggiunto pur senza gridare al miracolo. Perché miracolo non è. E guardando avanti. Cambiando quel che c’è da cambiare per non ripetere gli stessi errori. Poi di calcio possiamo parlare. E lo faremo. A fine stagione. Ma non sta scritto da nessuna parte che, ad esempio, non potremo mai vivere serate come quella di giovedì a Liverpool. L’Europa League è considerata una coppetta? Peggio per chi resta a casa. Il Napoli deve essere un riferimento, deve trainare, non lasciarsi trainare. De Laurentiis deve capirlo. Ha tanti meriti ma sul più bello si adegua al clima che lo circonda. Oggi il Leicester ha subito un arbitraggio poco amico, eppure Claudio Ranieri è andato davanti alle telecamere e non ha battuto ciglio. La strada è questa. Non ce n’è un’altra.