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L’antica protesteria del corso e il Napoli tigre di cartone in questo giornalismo

Dopo la sosta è tornato il campionato, avaro di soddisfazioni anche per questa terza partita.

Il Napoli trova il suo doppio deformato e noi tifosi siamo sconcertati.

Devo ammettere che non mi piace parlare del lavoro degli altri, o di come si debba svolgere un ruolo al meglio. Non sarei nemmeno in grado di determinarlo, di stabilire cosa debba essere fatto e cosa no, per cui non parlerò delle infelici uscite del nuovo allenatore del Napoli, e mi concentrerò sulla felicità che un Napoli esposto e in discussione arreca nei ceti parassitari della “antica protesteria del corso”.

Un tempo il cronista della sede locale della Rai annunciava il risultato e commentava il breve filmato della sintesi della partita, salutando il pubblico con professionalitàe commentando con una chiosa la prestazione delle due squadre in campo, non dimenticando la squadra locale e un pensiero in più ad essa, senza sfoggiare campanilismi o preferenze acclarate.

Ricordo che di un famosissimo conduttore di 90 minuto, Paolo Valenti, fu svelata la squadra del cuore soltanto dopo la sua morte: egli, per non allontanare da sé il pubblico di tutta Italia, non commentava mai “arbitrariamente”i risultati delle partite, tenendo un certo distacco potremmo dire britannico. Da quando un giovane Jacopo Volpi, commosso, annunciò che Paolo Valenti tifava per la Fiorentina, il vaso di pandora fu aperto. Entrò in ballo la corazzata dell’informazione televisiva di Berlusconi, che lodava solo il Milan e disprezzava l’Inter, che rispettava la Juventus socia in affari, e calpestava come piccole, inutili, senza stimoli, senza appeal, tutte le altre squadre del campionato. In questi venti anni il modello di quell’informazione tifosa, acritica, ottusa, in cui il mio è più forte del tuo, da gradevole diversivo che ci ricordava il cortile di scuola o il salone del barbiere o il bar del paesello, è diventato il modello di tutta l’informazione: rabbiosa contro l’estraneo, ossequiosa verso il padrone. Fine dell’analisi, fine della discussione.

Ciascuno porta in campo il suo interesse e difende una linea concordata, la “recita”, per così dire, snocciolando un copione che non puòessere contraddetto.

E così ogni nota, ogni parola, soprattutto nel campo calcistico, nasconde, nel magma di cartapesta delle tv locali, dei minimi interessi.

Si parlava degli orologi regalati ai cronisti, quando ero giovane.

Oggi dei veri e propri scritturati parlano bene o male di una squadra per fare un piacere a un procuratore, per compiacere un amico allenatore, per farsi amico un presidente e magari avere un biglietto, o qualche attenzione in altre sedi.

Quando “la buonanima dei nostri nonni” ci diceva che girano troppi soldi intorno al pallone, nella sua banalità ci diceva una cosa seria. Ci sono troppi soldi e troppi interessi parcellizzati che alla fine rinforzano i più forti e distruggono i deboli che ruggiscono dietro tigri di cartone.

La Ssc napoli è stata una tigre di cartone.

Al momento del dunque si è lasciata sopraffare dal giornalismo accattone, mendìco, che irresponsabilmente, e per motivi che sono certo appartengono alla sfera del risentimento per un cocktail rifiutato o un invito a cena non ricevuto, ha cominciato a fare il dirigente in pectore, a discettare di moduli, a parlare delle ampiezze del campo prima che delle ampiezze dei propri ventri.

Se abbiamo bevuto lo sciroppino negli anni delle salvezze, della serie B, anni in cui ognuno in studio pareva più competente di chi era in campo, ora questa pappetta è diventata indigesta.

Siamo bombardati da personalità molto modeste e troppo interessate al proprio prestigio per poterci fidare.

Ed è ancora aperta la ferita del 2000, anno in cui tutta la stampa e l’industria dei procuratori crocifissero Zeman e fecero del Napoli la succursale della Gea dei Moggi, una squadra destinata a retrocedere per far contenti i padroni del nord e gli interessi fortissimi delle pay tv.

E allora riparto dalla dirigenza, da questo mitico direttore sportivo che non parla, non si vede, si nasconde dietro i ray ban, che non ha concluso un solo acquisto (Reina e Valdifiori sono operazioni di gennaio scorso), che non ci ha dato il piacere di sapere cosa pensa dei suoi calciatori, che non ha un indirizzo tecnico, un’impronta manageriale. Di lui sappiamo che Catania-Carpi era sotto inchiesta.

I risultati non sono tutto, ma il gran circo è anche questo: non hai un secondo tentativo se sali sul filo e non hai la rete. Soprattutto professionalità non è un termine astratto.

In questa città tutto pare destinato a disfarsi portandosi dietro ricordi. Noi tifosi non vogliamo tutto e subito, ma in dieci anni la società non è cresciuta. Nel Napoli c’è solo un napoletano, la dirigenza è di serie B, e l’allenatore è inesperto. La barca è buona, ma è difficile da manovrare, e non basta una regata per dimostrare di saper reggere il mare.

Vedremo domani. “In Bruges” era un film che raccontava una storia di killer annoiati che scappano dal loro passato. Il Napoli non deve scappare dal suo passato, che è buono e fatto di sei anni di grandi risultati sportivi, inediti per continuità e qualità (al netto del grande Diego). Ma non può annoiarsi di giocare un calcio brillante e senza paura, come abbiamo visto fare a questi stessi calciatori.
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