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A Parigi senza soldi per l’affitto, andare da Camus e parlargli di Higuain

A Parigi senza soldi per l’affitto, andare da Camus e parlargli di Higuain

La sveglia suonerà alle sette, come sempre, lo so; ma io alle cinque ho già gli occhi aperti. Aspetto una mail per un posto di lavoro e Simona mi dice di stare tranquillo perché andrà tutto bene: “Dormi ancora un po’”. Io mi vergogno e non ho il coraggio di dirle quello che penso davvero: è la partita di stasera a tenermi sveglio. 

Viviamo in ventisette metri quadrati, a Parigi i fitti sono molto alti, ma a noi va bene così, siamo vicini al centro e a Belleville, il quartiere di tutti, quello dove compri il caffè dai Turchi, le scarpe dai Cinesi, la carne dai Marocchini, e i capelli te li tagliano gli Algerini, quelli con la barba riccia, profumati e affilati, e ti vergogni un po’ a tremare quando aggiustano il taglio con il rasoio a mano libera, ma loro ci vanno lenti e precisi.

La giornata sarà lunga: sto davanti al computer con la mail aperta, ogni cinque minuti vado sul sito del Napoli, poi il Napolista, poi torno sulla mail per attendere nuove sul lavoro, ma in sottofondo metto le vecchie puntate di Radio Shamal. Poi la Gazzetta, il Corriere, SSC Napoli, il Napolista, la mail… ripeto, sarà una lunga giornata. 

Per pranzo cominciano i commenti sui vari social: non gioca questo, quello sì, “…ma che è, pazzo?…”. L’ansia sale, e della mail di lavoro non si ha nessuna notizia. 

Come lo paghiamo il fitto questo mese? E chi lo sa. 

La vedrò in streaming, come sempre. Alle cinque comincio a torturare il sito: sui canali della partita gioca qualche squadra impronunciabile, campionato tedesco, inglese, spagnolo. Ma quanto manca? Devo scendere, altrimenti impazzisco.

So dove andare. 

A Parigi l’inverno non è umido come a Londra, è bagnato; il freddo non arriva mai a picchi insopportabili, ma comincia presto, è lento, ti si intrufola subdolo nella mente con i suoi perenni strati di nuvole sottili e con i marciapiedi bagnati. Sembra accada lo stesso per la primavera: lenta, persistente, la luce del sole da bianca diventa quella di un tramonto mai compiuto. 

“Sin prisa pero sin pausa”.

E io cammino, mi sembra una conquista tenere il cappotto aperto e non mettere i guanti, così posso fumare senza impuzzolentirli. 

Arrivo a destinazione: una piazza piccola, circondata da condomini marroni abitati da Algerini, Africani del sud e qualche Cinese. Un giovanotto dalla pelle dorata e la barba riccia corteggia una ragazza dai capelli nerissimi, pieni, ondulati. Lui ha le gambe magre e una nobiltà che non conoscevo prima. Alcuni dei loro amici scorrazzano con i motorini nella piazza, che è area pedonale, finché un cuoco cinese non esce da un ristorante dall’insegna con un dragone rosso, e urla in qualche strana lingua che no, lì non possono stare con i motorini, è vietato e danno fastidio, o almeno immagino che dica questo; allora i ragazzi li spengono e li parcheggiano sulla strada. Un gruppo di omoni neri, coperti con felpe da bancarella e con mani enormi e callose, chiacchierano e ridono tra loro, e quando lo fanno è come se sbattessero due tubi di ferro, è un rumore pieno, basso ma squillante; ci vuole un po’ per capire che non sono gli Africani ad adeguarsi alle lingue, sono le lingue che si adeguano agli Africani.

Una strana scultura, onestamente brutta, è al centro della piazza: un pezzo di ferro dalla forma di un uomo diviso in due. Chi conosce questa piazza? Solo quelli che ci vivono. 

Prendo il filtrino, la cartina, il tabacco e rollo una sigaretta che lascerò lì, sulla panchina. 

È quasi ora, torno a casa.

Niente, nessuna notizia del lavoro. Quanto manca alla partita? Un’ora. Simona è a casa: “All’Alimentation General fanno della bella musica stasera, musica gitana dei balcani, a te piace tanto, potremmo…ah già, la partita”. 

Otto e mezza; nove meno un quarto.

Quando la telecronaca è in spagnolo, anche Simona vede la partita, le piace quando urlano: “GOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOLLLLLL, EL PIPAAAAA HI-GUA-IN!”.

All’inizio, comunque, devo mettere le cuffie, perché lei deve lavorare; resisterà poco, alla prima bestemmia si preoccuperà e dovrò levare le cuffie, vuole sentire e vedere che succede. Ogni tanto dice: “Da quando mi hai fatto vedere Maradona non mi diverto più a seguire le partite”, io obietto con un distratto: “Ma che c’entra, questa è una bellezza diversa” ingoiando della pasta che mi è capitata sotto mano senza che me ne accorgessi; non ho tempo per le teorie sull’estetica del calcio, ora c’è la partita, ora non esiste altro.

“Che bello lo spagnolo, però”. Sì, su questo non posso darle torto: sembra di ascoltare Wilcock, l’amico ingiustamente meno conosciuto di Borges, forse perché ha un nome che sembra inglese. In spagnolo non c’è la punizione o il fallo di fondo, c’è tiros libres, c’è roja directa, c’è pelota; il Napoli piace agli spagnoli, “Tiene paciencia, recupera la pelota, ocupaciòn territorial”, sembra un documentario sulla guerra civile boliviana più che la telecronaca di una partita; a un certo punto uno dei telecronisti dice che da noi, a Napoli, criticano troppo la squadra, dice che sbagliamo e per spiegarsi cita Isabel Allende: solo dopo il dolore del travaglio si partorisce e si assiste allo spettacolo della vita, è necessaria molta pazienza per essere felici. Mai sentito Caressa citare uno scrittore, chissà perché non me ne sorprendo.

Quando sento “pelota” sorrido, perché penso a quando giocavo “a pelota”, che in spagnolo si chiama pelota vasca (Basca come il tizio che mi deve far sapere se mi ha assunto, il destino sparpagliato tra le lingue) col Super Santos, contro qualche cancello di garage, fino a quando non usciva il guardiano o si affacciava la signora, allora tutto finiva per cinque minuti al massimo, poi riprendevamo e la signora si affacciava di nuovo: “ Ma allora non avete capito, devo chiamare i vigili?” Solo chi gioca a pelota e chi non ha messo il grattino teme i vigili a Napoli, e io facevo entrambe le cose ad essere sincero, solo in età diverse. Io ho sempre avuto paura dei vigili.

Alla fine del primo tempo Benìtez esce composto, serio in volto mentre chiude gli occhiali, sembra ci arrotoli attorno uno di quei lacci che si usano per portarli al petto. Mi fa piacere vederlo così, né pienamente soddisfatto, né stanco come mi sembrava da un po’, ma preso, indaffarato e serio; questo è il Rafa che conosco; poi sorriderà, magari durante le interviste. 

(A proposito, meno male che da qui non vedo Mauro).

“el Napoli tiene la capacidad de aumentar las distancias”

“y excelente anticipación del Pipa” per loro è el Pipa

Fallo su Ghoulam: “…no no, mi error de valoración, es roja directa…”

Sul tiro di Mertens: “ mano permaloso del guardavalla”

“Higuain agarra la pelota , higuain con prepotencia”

“Samba, el central moreno de la dinamo”

“Higuain! (scivola da solo in aria) que pasò Pipa!?”

E ridono, gli spagnoli el Pipa lo amano e per tre volte sarà un GOOOOOOOOOOOOOLLLL, EL PIPA HI-GUA-IN! a squarcia gola, entusiasmante, fantastico; Simona ha ragione, lo spagnolo è una lingua fatta per la letteratura.

La mail è arrivata: “Ci aggiorniamo domani, après-midi, ancora non abbiamo deciso, désolé.”

Almeno dormirò tranquillo. Oggi abbiamo vinto.

E’ facile scrivere quando si vince, ma qui non è detta ancora l’ultima parola, in nessuna direzione.

Stamattina so dove devo tornare a rendere grazie: Place Albert Camus, una piazza che conosce solo chi ci abita. I Francesi non ammetterebbero mai di aver sbagliato con lui, ma sentono il peso del loro nome, viene dal popolo dei Franchi, che può significare coraggioso, o libero, o addirittura errante. Se chiedi a un francese se ha mai sentito parlare di Camus, lui ti risponderà che certo, lo conosce, “grande scrittore”, commenterà con voce solenne e inarcando le labbra, dopodiché chiusa la discussione. L’avevano escluso e ora si sentono in difficoltà quando si parla di lui; era Algerino in Francia e Francese in Algeria. Era solo. Da giovane giocava a calcio, era portiere, si potrebbe pensare quindi che stare solo gli piacesse; poi venne la malattia e dovette smettere di stare tra i pali. Poco male per noi, ha scritto giusto qualcosina di decente questo Signore. 

Tutto quello che so sulla moralità e sui doveri degli uomini, lo devo al calcio.

Albert Camus, in France Football, 1957, quelli che un mese fa hanno intervistato Rafa.

Amava questo sport, come tutto quello che esalta il coraggio dell’uomo, come tutto quello che porta in sé l’epos e la fatica per arrivare alla felicità. Come amava le rovine di Tipasa, in Algeria, rovine romane che arrivano fino al mare, e che  sembrano per questo motivo greche, un luogo in cui in primavera abitano gli dei, tra i profumi, la luce e i colori. Io sento una certa malinconia per la mia primavera, ed è un sentimento inaspettato: in questo periodo a Napoli, verso le sei e mezza, sette del mattino, dalla terra sale il sudore della città, l’aria fredda ti cinge la testa ma il corpo comincia a sentire il calore del sole. Sulla collina di Posillipo è facile trovare gli dei, così come è facile trovare la mia Tipasa, che non è in una delle tante rovine greche, romane o altro della mia città, ma in qualcosa che è legato al tempo in maniera ancora più evidente, in qualcosa che è vivo e che fa parte della mia di vita, solo che lo scopro solamente ora, a parecchi chilometri di distanza: tra un muretto e l’altro, quelli di tufo giallo, cadenti, crescono forti in primavera gli alberi cespugliosi di gelsomino, o meglio ‘o giesumminu (o gersuminu). Il suo profumo, a metà marzo, inizio aprile, non dà adito a dubbi: è primavera. Sentire nelle narici il gelsomino è commovente, è il riposo degli dei, così come tra le rovine di Tipasa. Mi manca, nella stupenda Parigi, giro fra i suoi parchi bellissimi e mi meraviglio di non sentirlo, direi quasi che mi intristisco; ma qui sto conoscendo qualcosa di nuovo: una primavera lenta e costante, “sin prisa pero sin pausa” come è stato l’inverno, anch’essa seducente, con odori per me nuovi.

Vedremo, la partita ancora non è finita, in nessuna direzione.

Rafa è rimasto serio, el Pipa sorrideva, ma in fin dei conti lui sorride spesso; el Pipa è argentino, Rafa è spagnolo, si capiscono ma uno è come il profumo del giesumminu e l’altro è una primavera parigina: aspetta, avanza costantemente, “sin prisa pero sin pausa”. 

Vedremo, vedremo.

Place Albert Camus: bisogna rispettare i propri dei per sentirsi completi. La pelota continua ad andare dove vuole, gli stupendi giovani franco algerini pomiciano, hanno marinato la scuola e io non ho i soldi per pagare l’affitto; ma il Napoli ha vinto. Se Camus sapesse che rivolgo a lui le mie preghiere, credo che si offenderebbe; ma potrei spiegargli che prego solo per il Napoli, e forse riuscirei a strappargli un sorriso. 

Nel frattempo rollo un’altra sigaretta e non la fumo, la lascio sotto quella statua orrenda che serve ai Francesi perché si sentano onesti (e onesti sono davvero, liberi e coraggiosi). 

Un concerto di lingue, un musica dolce, gesumminu nel cuore, la pelota che mi tiene sveglio, e il fitto che sarà désolé. Ma non mi devo preoccupare, sta tutto nel saper porgere la giusta preghiera: ho lasciato una sigaretta ad Albert, lui amava fumare, come me, le sigarette che profumano di liquirizia e cuoio.

“Sin prisa pero sin pausa”, gli ho detto, e sono andato via. 

Chissà chi se le fuma, tutte quelle sigarette. 
Andrea Virgilio

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