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L’applauso a Cannavaro e l’importanza di far pace col proprio passato (Cavani docet)

L’applauso a Cannavaro e l’importanza di far pace col proprio passato (Cavani docet)

Avete sentito il lungo e scrosciante applauso per Paolo Cannavaro? Bellissimo. Ricorda quello che prima di un Napoli-Lazio del 2011 fu tributato a Edy Reja, al San Paolo per la prima volta nei panni dell’ex. Due protagonisti della storia del club, amati e insieme ferocemente criticati, hanno ricevuto da avversari un omaggio che il San Paolo non riconosceva loro ai tempi della militanza in maglia azzurra. Bene. Dovrebbe andare sempre così: se i tifosi del Napoli vogliono che la squadra sia davvero una big, cominciassero anche loro a ragionare da grandi.

Lavezzi all’Inter, Cavani alla Juve e Benitez – in scadenza – magari ad allenare la Roma. Il primo è un movimento tutto sommato realistico, la seconda è una voce di fantamercato e la terza l’ho appena inventata. Ma sarebbe bello accadesse davvero. Perché ci costringerebbe ad affrontare un argomento che per noi rimane un invincibile tabù: il rapporto con l’idolo passato ad altra squadra.

I precedenti, senza tornare ad Altafini, sono assolutamente negativi. La cessione di Quagliarella fu accolta con quello che, eufemisticamente, potremmo definire sconcerto. Quella del Pocho mai del tutto metabolizzata, e ancora oggi c’è chi si emoziona all’idea di un possibile ritorno. Quella di Cavani, be’, i fischi dello scorso agosto dicono tutto. Alla sola ipotesi di vendere Callejòn e Higuain gli animi si scaldano.

Questa irritabilità è, per certi versi, l’altra faccia dell’amore irrazionale che Napoli riversa sui suoi beniamini. A un sentimento tanto forte non possono che seguire altrettanto forti malinconie e risentimenti. Come tra fidanzati: dopo la passione, il reciproco odio.

Ma è pure un segno di debolezza. Si può dire che la prima vera spia della decadenza del Milan sia stata il ritorno di Schevchenko, e che la Juve ha smesso di essere davvero grande quando ha preso di mira Boniek. Non ci si deve illudere che per tornare a un passato piacevole basta riabilitare i protagonisti di quel passato, come non si deve aver paura di chi nella tua storia ha avuto un ruolo, salvo poi aver fatto scelte diverse.

In che cosa consiste la debolezza? Nell’avere paura del futuro. Solo chi ha poca fiducia in quello che verrà ha tanta reverenza del passato. Non mi risulta che i tifosi del Barça abbiano avuto difficoltà nell’accettare l’avvicendamento definitivo tra Ronaldinho e Messi, per quanto il Gaucho fosse ancora nel fiore degli anni. Certo, i catalani (specie nella gestione Guardiola) sono un mondo a parte, ma l’esempio rende l’idea.

Torniamo a Reja e Cannavaro. C’è del buono nei loro applausi, dell’ottimo. La benevolenza nei loro confronti deriva dalla consapevolezza, neanche tanto implicita, che il loro percorso nel Napoli era fisiologicamente chiuso. Hanno avuto un ruolo, importante, ma la nostra storia ha avuto un seguito nel quale, in fin dei conti, loro non erano più imprescindibili. Solo la serenità della separazione ha reso possibile, col senno di poi, smussare gli angoli di una convivenza spesso elettrica e fare la cosa più semplice del mondo. Battere le mani per due persone che ti hanno dato tanto.

È chiaro che avere lo stesso atteggiamento verso calciatori molto (ma molto) più forti sia difficile. Ma ci arriveremo, e tanto vale prepararsi.

Nella Kop, la leggendaria curva calda del tifo del Liverpool, c’è una bandiera che scimmiotta l’estetica sovietica. Ritratti su fondo rosso non sono i segretari del Pcus, ma i grandi mister del club: Shankly, Paisley, Fagan, Dalglish e Benitez. Sì, pure Rafa. E non fa niente che lo spagnolo sia ancora in attività, possa ancora far male ai Reds, che presti la propria professionalità ad altre società e al cuore di altri tifosi. Fa niente che un sorteggio Uefa te lo possa mettere contro, o che l’incarico di un’altra squadra di Premier ne possa fare un nemico. È un ex allenatore, ma pur sempre un grande. Per questo merita di stare su quella bandiera.
Roberto Procaccini

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