Marchisio e il fantasma di Pescosolido

Ci sono due pezzi di ferro che camminano paralleli e che qui adesso chiamano binari, un nome che gli hanno attribuito solo perché sopra ci corre una scatola d’acciaio che somiglia a un treno. Attraversa, il treno, una catasta di lamiere che dovrebbero essere non dico case, ma tetti sotto i quali dormire, se non […]

Ci sono due pezzi di ferro che camminano paralleli e che qui adesso chiamano binari, un nome che gli hanno attribuito solo perché sopra ci corre una scatola d’acciaio che somiglia a un treno. Attraversa, il treno, una catasta di lamiere che dovrebbero essere non dico case, ma tetti sotto i quali dormire, se non altro dove provarci, quando cala la notte, nella pancia di questa favela dimenticata da dio e cosa ancor più grave abbandonata anche dagli uomini. Lungo i binari, quando il treno è lontano, le donne stendono i panni ad asciugare. Corrono a toglierli appena sentono il rumore della locomotiva da lontano. Dall’altra parte della strada c’è il palazzo del Comune di Maceiò, il contrasto più incredibile fra i tanti che il Brasile apparecchia ogni giorno sotto gli occhi. È una giungla di senza diritti, neppure più la chiesa mette piede qui dentro, tra polvere e immondizia. Gli uomini si tuffano nella laguna e pescano. Portano a casa molluschi che vengono lasciati nell’acqua un giorno intero prima di essere rivenduti ai ristoranti della città, che poi li offriranno a noi turisti in piatti 70 volte più costosi. Me lo racconta in grande confidenza Alfonso, un ragazzo di Macerata che lavora come responsabile dell’accoglienza in uno dei locali “in” della città. Si è trasferito in Brasile con il diploma dell’alberghiero in tasca, dice che in Italia che cosa ci rimaneva a fare. Chi vive nella favela, mi spiega, è escluso dalle attività della Maceiò ufficiale, condannato com’è a restare per sempre nella Maceiò sommersa. Molte persone lavorano da clandestine nelle abitazioni dei borghesi, sperando che i padroni non si accorgano mai della loro vera provenienza. Márcia ha preso dei giorni di ferie per accompagnarmi al nord. Abbiamo i biglietti dell’Italia per la partita con Costa Rica di domani e quelli per la partita con l’Uruguay. “A patto che mi porti a Maceiò”, mi ha detto, figuriamoci, e allora siamo qui. Maceiò ha alcune delle spiagge più belle del Brasile, appena qualche chilometro oltre la desolazione delle sue favelas. Recife, dove domani spero di vedere Insigne in campo almeno per qualche minuto, dista 250 chilometri. Ce ne stiamo sdraiati, Márcia ed io, a parlare dei troppi giorni in cui non ci siamo visti e un po’ anche di questi Mondiali che ci fanno ritrovare. Mi dice che è di Maceiò quel Pepe del Portogallo che con il tedesco Mueller voleva fare come Zidane con Materazzi. È di Maceiò un totem della loro patria pallonara, Mario Zagallo, che ha vinto due volte la Coppa da calciatore e una da commissario tecnico. Fa caldo. Ridiamo delle parole di Marchisio, che ha raccontato di avere avuto le allucinazioni in campo a Manaus, durante la partita con l’Inghilterra. Non è possibile, dice Márcia, che qualcuno gli abbia creduto. Penso ai fantasmi che al povero Marchisio potrebbe toccare di vedere domani, qui al nord, dove ormai un mucchio di anni fa un’altra Italia conobbe un rovescio inatteso. Maceiò è stata la Corea del tennis. Era il 1992. Coppa Davis. Il Brasile aveva eliminato la Germania di Becker al primo turno, e al secondo ci portò a giocare quassù. Camporese batté Mattar in cinque set, Cané si fece rimontare da un certo Oncins. Perso un clamoroso doppio, arrivammo ai singolari decisivi dell’ultima giornata con un Camporese stravolto, prosciugato dal sole e dalla fatica. Panatta pescò dalla panchina Pescosolido, e fu il patatrac. Perde i primi due set con Oncins, vince il terzo, ma quando si ricomincia a giocare arrivano i crampi. Prende dei sali minerali, pare riprendersi. Poi guarda verso Panatta, i dolori vanno e vengono. Panatta gli suggerisce di fare tre doppi falli di seguito e andarsi a sedere, Pescosolido obbedisce, butta un game di proposito, ha una crisi, si va a sedere in panchina e gli viene da vomitare, arriva il medico e lo trova che pare di legno. Devono portarlo via in barella. Negli spogliatoi gli fanno una siringa per rilassarlo, in ospedale gli diagnosticano un colpo di sole con calo di potassio. Ovviamente Italia eliminata. Márcia non lo ricordava, non gliene fregava granché del tennis prima che arrivasse Kuerten, campione al Roland Garros e idolo nazionale. “Non vorrete mica perdere con Costa Rica”, mi domanda. Penso di no, credo che l’Italia non perderà, ma non vorrei che a Marchisio, nelle sue allucinazioni sotto il sole del nord, apparisse il fantasma di Pescosolido. Il Ciuccio

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