Tirava e correva. Correva e tirava. E segnava, tanto, tantissimo. «Ancora oggi a Roncello, dove sono nato, trovo ogni tanto qualcuno che mi dice: Ehi, tu da bambino mi avevi rotto un vetro. Magari era vero, ma non li ho certo rotti tutti io. Non c’era il campo, e noi bambini si giocava in piazza. Capitava di rompere qualcosa…». Paolino Pulici corre e tira anche oggi che ha appena compiuto 59 anni e dirige la scuola calcio della gloriosa società Tritium 1908 che porta il suo nome a Trezzo d’Adda, tra Milano e Bergamo, il paese non lontano dal suo dove abita oggi, dove un giorno conobbe la moglie Claudia, dove ha cresciuto la figlia Patrizia, dove impazzisce per la nipotina di sette anni, Valentina, e dove insegna ai ragazzi come ci si fa rispettare su un campo di calcio. «Me la cavo ancora. Mi manca un po’ il fiato, il resto c’è. Ma i bambini dopo che spieghi come devono fare, vogliono anche che glielo mostri». E lui non si tira indietro. Gioca con loro, durante la settimana, poi il sabato e la domenica va e li arbitra, intorno a Milano, viaggia con il suo carico di fama intatta, «e una volta affrontammo i giovani dell’Atalanta, li guidava Magrin, ex juventino, che mise i suoi al centro del campo e cominciò a parlare: ‘Ragazzi, ora vi spiego chi è quel signore laggiù…’».
Risplende ancora di luce propria, Pulici, nitida e autentica, alimentata e conservata dal suo essere stato campione assoluto e basta, schivo e allergico a tutti gli artifizi odierni indispensabili per creare il personaggio da consegnare allo star system: «Non ho mai voluto esserlo, un personaggio. Lo dicevo, ai giornalisti: scrivete quello che faccio in campo, criticatemi quando dovete farlo, ma ciò che sono e faccio fuori, sono affari miei». Anche per questo sta ancora tra i bambini, perché il calcio di oggi è molto lontano dal suo: «Quando smisi, Titta Rota mi convinse ad andare con lui ad allenare a Piacenza. Fummo promossi, c’era anche Beppe Signori in squadra. Poi mi accorsi però che per i giocatori i valori erano altri, soldi, soldi, troppi soldi. Per noi la gioia vera era giocare un derby, ora si discute prima del premio partita». Ha conservato gelosamente il diritto alla privacy, non frequenta salotti Tv, sceglie bene gli appuntamenti, e quando va in vacanza, lo fa nella sua casa all’Elba, a Porto Azzurro, dove si distende andando a pesca, «perché mangiare il pesce che hai pescato tu, dà ancora maggiore soddisfazione». Nacque Paolino e non Paolo, «mio padre Silvio mi iscrisse così, all’anagrafe»; Agroppi lo vide e lo chiamò Pupi, Brera lo ammirò a Milano e scrisse che ‘un Puliciclone si è abbattuto su San Siro’ , «sono onorato del soprannome, perché mi fu dato da un grande giornalista». E lui è ancora questo, Pupi e soprattutto Puliciclone, devastante e velocissima ala sinistra nato destro. «Fu un mio istruttore a farmi capire che potevo diventare forte anche di sinistro: se sei destro, mi diceva, e calci di destro, vuole dire che il peso del corpo lo regge soprattutto l’arto sinistro. Pensaci. Magari sarai meno preciso, ma vedrai che se tiri di sinistro sarai più potente. E fu così», quando il calcio era soprattutto genio e ancora scienza empirica. Il comico Flavio Oreglio gli ha dedicato una canzone che si intitola Ciclone, è riuscito a farlo emozionare, così come Paolino riscalda ancora i tifosi granata per i quali il culto del passato è un dovere, una missione scolpita nella storia da sessant’anni. Figurarsi poi per uno come lui, bomber sceltissimo che un giorno entrò in campo in un derby e si trovò davanti, steso in terra nei pochi metri prima del terreno di gioco, un bandierone juventino: «E tutti gli giravano attorno, ma io mi dissi: ‘perché devo fare il giro più lungo?’, così ci camminai sopra per entrare in campo. Non vi dico che cosa mi piovve giù dalla curva della Juve…». E non c’è bisogno di chiedersi perché una generazione intera stravede ancora per loro e snocciola come un rosario: Castellini, Santin, Salvadori… tutti in fila fino al numero undici, con boato finale annesso.
Pietro Cabras (dal Corriere dello Sport)