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Confesso: non ho cantato l’inno, ma il coro “noi siamo partenopei”

Lo confesso: domenica sera non ho cantato l’inno di Mameli. L’ho fatto tante volte in questi anni, con tanti napoletani, quando un pezzo della politica guardava con simpatia a chi veramente il Paese voleva dividerlo in due senza che la seconda carica dello Stato se ne dichiarasse sconvolta. Mi sono unito al coro che è venuto subito dopo «Partenopei noi siamo partenopei». Lì c’ero anche io. Non c’entrava nulla l’unità nazionale, erano solo i fischi di chi sentiva abbandonato: dalle istituzioni, da un potere che dovrebbe starti vicino e non lo fa, da una vita che non senti più tua, schiacciata come è da forze di cui non riesci neppure a comprendere le dimensioni. Non c’entrava nulla l’unità nazionale, ma i signori ingessati che erano passati pochi secondi prima sui maxischermi, vecchie figurine di regime, neppure consapevoli di essere ormai solo figurine.

L’applauso per il sangue di Brindisi e i morti emiliani è stato sincero; il minuto di raccoglimento — salvo qualche offesa ai napoletani (ma questo non lo scrive nessuno) — sentito. Non è vergognoso (solo) l’aver fischiato l’inno ma è vergognoso, anzi lo è di più, che non si ci domandi come sia potuto succedere. Si è detto: «Le solite frange». Ma quando a votare ci vanno solo un italiano su due forse il problema non è delle «solite frange». I fischi erano fischi di solitudine, solitudine contro l’arroganza del potere «che pensa sempre di compiere il volere di Dio mentre invece sta violando tutte le sue leggi». Sei solo, hai il disperato bisogno di credere in qualcosa — ti è rimasta solo la squadra — e vedi di fronte a te gente che non ha la tua stessa passione ed è lì solo, con ipocrisia e cinismo, per cantare l’inno di una nazione che negli ultimi anni è quasi riuscita a distruggere.

Quando, prima della premiazione, si è fatto il nome del presidente del Senato e poi di un elenco, che sembrava non finire mai, di capi e capetti, i fischi della folla sono stati assordanti. Non uno non fischiava. Il potere non lo sentiamo vicino questo il dramma di oggi. Il gioco del calcio è esso stesso un gioco contro il potere. L’unico gioco di squadra dove l’ultima in classifica può battere la prima. Non accade nel tennis, nel basket, nella palla a volo. Perché siamo contro la Juventus o il Milan e non ci sta antipatica l’Inter. Perché siamo contro il potere, che un po’ invidiamo, e perché Moratti è «’nu brav’ guaglione» e i neroazzurri pazzi e tanto «sfurtunati», esattamente come questa nostra disgraziata città. Come può essere uno di noi un piccolo Agnelli dalla faccia sempre un po’ schifata e che non dice neppure a Marchionne «…ma accattate na’ giacca». Noi quando dobbiamo andare da qualche parte importante non ci andiamo con il maglione, quelli non ne hanno bisogno perché sono loro ad essere importanti. Ci hanno rubato tutto; a Torino, quando abbiamo perso, anche la canzone. E allora, alla fine, quando abbiamo cantato «’o surdato ‘nnammurato» è stato come riprenderci un pezzo della nostra vita, della speranza di far crescere in nostri figli nuovamente in un mondo che era nostro. Oje vita, oje vita mia…

Ferdinando Pinto (tratto dal Corriere del Mezzogiorno)
Direttore del dipartimento di Diritto amministrativo
Università Federico II

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