ilNapolista

Con questa tesi Pecchia diventò allenatore: «Giocherò col 4-2-3-1. Questo è il discorso d’insediamento che farò»

Con questa tesi Pecchia diventò allenatore: «Giocherò col 4-2-3-1. Questo è il discorso d’insediamento che farò»
“Allenare comunicando” questo il titolo della tesi con cui nel 2012 Fabio Pecchia ha ottenuto il patentino di Allenatore Professionista di Prima Categoria Uefa Pro. Ne pubblichiamo ampi stralci.

La premessa
“I momenti della mia vita nei quali sono cresciuto di più sono collegati agli insuccessi; i momenti della mia vita nei quali sono peggiorato sono collegati al successo. Il successo è deformante, rilassa, inganna, ci rende peggiori, ci aiuta ad innamorarci eccessivamente di noi stessi; al contrario, l’insuccesso è formativo, ci rende stabili, ci avvicina alle nostre convinzioni, ci fa ritornare ad essere coerenti. Sia chiaro che competiamo per vincere, ed io faccio questo lavoro perché voglio vincere quando competo ma se non distinguessi quello che è realmente formativo e quello che è secondario, commetterei un errore enorme”. (Marcelo Bielsa)

Il suo primo esonero
«…questa notte ho sognato che mi esoneravano! Preveggenza? Sesto senso? Era un’evenienza che in quel momento davvero non mi aspettavo, nonostante il mio sembrava essere l’esonero più annunciato di tutti i campionati professionistici degli ultimi 20 anni; pagavo un inizio non proprio brillantissimo (per usare un eufemismo!): le prime 4 partite 4 sconfitte!»
«…mi hanno esonerato proprio quando pensavo di aver risalito la china insieme alla mia squadra; poco a poco, punto dopo punto, eravamo riusciti a restare ancora “vivi”: in fondo ieri abbiamo perso al 93′ e venivamo da 5 risultati utili consecutivi… ma al risveglio mi sono reso conto della triste realtà: mi hanno esonerato davvero! Non era un sogno: era la realtà; vorrei dire ancora la triste realtà, proprio un brusco e brutto risveglio. E allora: perché mi hanno esonerato?»

La sua esperienza di allenatore dopo l’esonero
«Ho sempre pensato (e adesso lo penso più che mai) che allenare una squadra fosse una cosa entusiasmante ma che, allo stesso tempo, fosse un lavoro con innumerevoli difficoltà, ricco di variabili impazzite. Tante volte però, durante la mia carriera da calciatore, ho ritenuto (sbagliando) che il mio allenatore del momento si stesse complicando da solo il proprio lavoro. Ma adesso, dopo l’esperienza vissuta in prima persona, posso affermare che, forse, la solitudine del ruolo, i carichi di tensione accumulati, gli svariati e differenti interlocutori da fronteggiare, possono far venir meno, in alcuni momenti della stagione, quella necessaria lucidità nel prendere delle decisioni: decisioni che invece, dall’esterno, sembrano semplici e a volte, addirittura ovvie e scontate».


L’incostanza
«Quanti sono i calciatori che partono benissimo e promettono ottimamente da adolescenti per poi perdersi durante la carriera e venir meno alle grandi aspettative riposte in loro?» 
«Perché alcuni atleti pur rimanendo nello stesso contesto (società, squadra, città) rendono di più con alcuni allenatori che con altri?»

L’importanza della comunicazione
«Per l’allenatore è necessario conoscere i principi che la regolano, perché deve essere consapevole che il rendimento di un atleta dipende spesso dalla comunicazione verbale (quanto e cosa gli viene detto) e da quella non verbale (come ci si comporta nei suoi confronti)».
«Quindi l’allenatore è (e deve essere) innanzitutto un comunicatore, inteso come colui che mette in comune, fa condividere tanti singoli egoismi e li plasma in una squadra! Ecco perché allora mi viene da dire che allenare significa comunicare, dove per comunicazione non s’intende semplicementeparlare, ma si presuppone necessariamente una relazione e quindi uno scambio» 
«Ma non basta: l’allenatore, oltre a un’efficace comunicazione, deve avere infatti anche una spiccata capacità di ascolto che gli permetta di cogliere i feed-back che quotidianamente la squadra gli lancia, sia per capire in pieno ciò che gli sta comunicando sia soprattutto per verificare se la sua comunicazione è stata efficace»
«Quando un allenatore comunica efficacemente, accresce la sua leadership, perché crea un ordine nella “testa” dell’atleta; e quanto più la leadership aumenta tanto più facile è guidare una squadra. La comunicazione è il mezzo principale che fa nascere un’emozione piuttosto che un’altra»

Episodi della sua carriera di calciatore
«Un giorno, prima di entrare in campo per l’allenamento, l’allenatore ci chiese di rimanere nello spogliatoio; era un momento delicato della stagione e la domenica avremmo dovuto incontrare una squadra che lottava per lo scudetto. Dopo qualche minuto di attesa, tra battute e risate, da lontano ho sentito zampettare un animale (ho pensato subito ad un cane, forse perché ne ho la fobia). Ed i miei timori trovarono immediata conferma: il nostro allenatore era entrato con un Rottweiler nello spogliatoio e, senza profferire parola, lasciò che l’animale ringhiasse (anche abbastanza arrabbiato!) per qualche attimo verso di noi. Il suo messaggio era chiaro: la domenica avremmo dovuto avere lo stesso atteggiamento del nostro ospite; scendemmo in campo e iniziammo l’allenamento».
«La determinazione e la convinzione dell’allenatore si trasmette “quasi per osmosi” ai suoi calciatori; a volte tale convinzione (ovviamente orientata all’ottimismo) sembra rasentare la pazzia ma è proprio quando “l’impossibile diventa possibile” che nasce la forza per superare i nostri limiti. Per questo non potrò mai dimenticare una straordinaria notte allo Stadio S. Paolo di Napoli: ormai sono passati tanti anni ma sento ancora il brivido della folla sulla mia pelle e l’emozione di aver vissuto quel giorno una serata speciale: “Era una partita in notturna contro la squadra di Zeman; il primo tempo si concluse con noi sotto di due reti e “soddisfatti” del risultato, il passivo, infatti, poteva essere molto più pesante: avevamo preso una “bambola” mai vista. Nel lungo (che in quel momento mi sembrava lunghissimo) sottopassaggio che dal campo ci conduceva negli spogliatoi continuavo a pensare alle numerose occasioni da gol degli avversari e soprattutto mi facevo tante domande…Nel frattempo ero finalmente arrivato nello spogliatoio: mi sedetti sconsolato al mio posto e guardai il resto della squadra: teste basse e nessuno che provava ad aprire bocca un po’ per rabbia, un po’ per delusione ma, soprattutto, perché avevamo bisogno di recuperare fiato, eravamo in apnea. Dopo aver bevuto un bicchiere di tè caldo entrò il mister e pensai: “ora ci massacra” e invece, senza dare alcuna indicazione tecnico/tattica, ci disse: “dai dai giovanotti, adesso torniamo su e vinciamo 3 a 2!!” ” Sicuro! Sicuro!”…Il vento evidentemente era cambiato, ma a dare forza alla nostra spinta, oltre al calore di un San Paolo infuocato ed entusiasta, c’era appunto la possibilità di materializzare la “profezia” del nostro istrionico tecnico. Fu così che negli ultimissimi minuti vincemmo quell’incredibile partita» 

«Ero un ragazzo di poco più di vent’anni, con più capelli che muscoli ma con una determinazione smisurata che mi aveva portato ad andare via da casa ad appena dodici anni. Ero arrivato al Napoli, dopo un discreto campionato di C con l’Avellino, ma mai avrei potuto immaginare che l’allenatore del Napoli, dopo solo poche giornate di campionato, riponesse in me tutta la sua fiducia facendomi diventare un titolare inamovibile e, di fatto, un calciatore di serie A! Eravamo alla vigilia della terza giornata di campionato, le prime due partite le avevamo perse e quel campionato non prometteva niente di buono per la nostra squadra; alla ripresa degli allenamenti, l’allenatore raduna al centro del campo i tre calciatori più giovanidella squadra: Fabio Cannavaro Giovanni Bia ed il sottoscritto per parlare con noi….Con serena fermezza ci disse: “ragazzi ora tocca a voi, conoscete il momento, datevi da fare ma sappiate semplicemente che io ho grande fiducia in voi !!!!” in quel preciso momento incrociai il suo sguardo e lessi chiaramente nei suoi occhi la voglia di giocarsi le sue probabilmente ultime carte come allenatore del Napoli affidandosi a tre giovani come noi. Le sue parole, la sua mimica, il suo sguardo mi diedero una carica impressionante per affrontare sul campo tutti i “mostri sacri” di quel tempo. Credo che non lo deludemmo e, da quel momento, mi sentii pronto per affrontare qualunque sfida calcistica». 


Il suo profilo da allenatore
«Sono sicuro che, da adesso in poi, quando preparerò una partita già dal primo giorno della settimana, parlando alla squadra, farò grande attenzione a dare istruzioni più positive che negative e, pertanto, al mio difensore centrale che affronta un attaccante forte fisicamente e molto bravo di testa con la sua squadra che puntualmente lo cerca per andare sulla spizzata, invece di rimarcare “non andare a duello” gli ripeterò “lascialo saltare e mantieni la linea difensiva”; oppure, affrontando una squadra disposta con il 4.3.1.2 contro il nostro 4.2.3.1, per attuare la mia idea di calcio che è di giocare sempre dal basso al portiere gli dirò: “la prima uscita è sui terzini” anziché “non giocare con i difensori centrali”».
«Il nostro punto di riferimento come sempre deve essere la palla; e, come vi ho sempre detto, quando la palla è dell’avversario tutti lavoriamo per andarcela a prendere, ma quando è nostra tutti pronti per andargli a far male, quindi: portiere, quando recuperi palla la prima giocata è sul terzino; difesa aperta, dobbiamo arrivare prima possibile sui terzini che devono essere sempre molto larghi ed alzarsi solo quando ricevono palla (per non togliersi spazio e tempo), quasi sempre saranno pressati dalle mezzali che arriveranno con un tempo che ci permetterà di trovare le nostre giocate. Terzini sempre in sovrapposizione pronti a creare superiorità numerica». 

L’ipotetico discorso di insediamento sulla prossima panchina
«È ovvio che nel calcio ci sono due fasi di gioco, quella di possesso e quella di non possesso; la palla o è nostra o è dell’avversario. Quando ce l’abbiamo noi dobbiamo gestirla e non perderla facilmente, gli avversari devono far fatica a recuperarla; quando la perdiamo, chi la perde o il più vicino va in pressione feroce sul portatore e gli altri vanno sugli appoggi. Se però non siamo messi bene (nel senso che non ci sono le distanze opportune) dobbiamo recuperare le posizioni e ritornare a 3000 all’ora sotto la linea della palla. Predisposizione mentale da parte di tutti a partecipare alle due fasi. Su questa base costruiremo il nostro progetto tattico di squadra. Voglio giocare con un 4.2.3.1 perché è un modulo propositivo (fase possesso), copre bene il campo e puoi affrontare qualsiasi modulo senza fare grossi cambiamenti (fase di non possesso).
Il portiere non deve essere un corpo estraneo alla squadra, può essere il primo regista e nella fase di non possesso la sua posizione si deve integrare con quella della linea difensiva; deve essere abile e pronto a leggere la situazione appena recupera palla, per giocare velocemente con il compagno libero e non dare il tempo agli avversari di risistemarsi.
Obiettivo è creare superiorità con gestione della palla, e ricerca della profondità; grande personalità e convinzione di giocare la palla dal basso utilizzando anche il portiere. Dai terzini (mi piace continuare a chiamarli così…) voglio grande partecipazione alla fase offensiva Voler giocare sempre la palla, ma cambiando alcune combinazioni in relazione al tipo di disposizione degli avversari. Voglio vincere giocando, cercando di imporre sempre il nostro gioco; è il massimo vedere la mia squadra giocare con disinvoltura e personalità, su ogni campo e contro chiunque avversario».

Considerazioni conclusive sul ruolo dell’allenatore
«Ho la convinzione che la scelta di una giusta comunicazione possa dare quel “quid pluris” per vincere (intendo raggiungimento dell’obiettivo), aiutando il calciatore a sfruttare tutte le risorse cheha dentro di sé. Per vincere, infatti, non è detto che bisogna avere una differenza di valore notevole rispetto all’avversario. In un contesto sempre più attento ad ogni dettaglio, con figure sempre più specifiche e specialistiche in ogni ruolo, forse proprio l’esplorazione di zone ancora “grigie”, potrebbe offrire ad un allenatore quel qualcosa in più, a livello di gestione delle risorse, per raggiungere l’obiettivo fissato con la propria società. Il nostro ruolo, però, non deve essere legato solo al risultato immediato: è chiaro che vincere le partite ed i campionati sia l’aspetto più appariscente per qualificare un allenatore come “vincente”; ma vincere vuol dire anche riuscire a creare, sviluppare le doti di un campione o di tanti “potenziali” campioni. Per questo noi allenatori abbiamo l’obbligo di comunicare loro traguardi precisi, affinché abbiano ben chiaro l’obiettivo: migliorarsi ogni giorno, in ogni allenamento, curando tanto l’allenamento “visibile” quanto quello “invisibile” e siamo noi allenatori a dover essere capaci di guidarli in questo percorso, sia individuale che di squadra e solo così potremo essere sicuri di vincere la nostra “sfida” più difficile: rendere compatibile il successo della squadra con il miglioramento costante di ogni singolo calciatore».
Fabio Pecchia
ilnapolista © riproduzione riservata