Magic Johnson: «Fu duro annunciare di essere sieropositivo, 30 anni fa era una condanna a morte»

A La Stampa: «Larry Bird e io abbiamo reso il basket Nba popolare. Non è stato facile portare il soprannome "Magic", mi ha fatto sentire un’incredibile pressione»

magic johnson

La Stampa intervista l’ex cestista Earvin Johnson, meglio noto come Magic Johnson. Da domani, su Apple Tv+, sarà disponibile la serie biografica in 4 puntate, “They Call Me Magic”, in cui ripercorre la sua vita e la sua carriera. Oggi ha 62 anni.

«In tutti questi anni ho continuato a reinventarmi, attraversando momenti fantastici e anche bui, e sentivo che era arrivato il momento per condividere tutto questo».

Per molti ragazzi della sua generazione è diventato un modello da seguire.

«Ad essere sincero all’inizio non ero molto a mio agio, perché ho sempre saputo cosa voglio e come voglio farlo, ma poi pensavo sempre che qualsiasi cosa avessi fatto avrebbe avuto conseguenze sulla vita delle persone. Oggi mi piace l’idea, ad esempio, di aver ispirato alcuni giocatori dell’Nba a reinventarsi come businessman una volta finita la carriera».

Rivendica di aver reso il basket uno sport popolare, insieme a Larry Bird.

«Persino Michael Jordan nella serie dice di non essere stato lui a rendere il basket Nba popolare, ma che siamo stati io e Larry a farlo, e questo gli rende grande onore. Anche se poi lui lo ha portato a un altro livello».

Gli chiedono quale sia il più importante lascito nello sport, che l’ha reso celebre:

«Penso la mentalità vincente, l’idea di poter migliorare sempre insieme ai tuoi compagni, e poi l’amore per il gioco e per la competizione. Ho sempre giocato con gioia e passione ogni singola partita, senza mai barare e non risparmiando mai neppure un briciolo di energia».

Nella serie sono raccontate anche cose inedite, mai emerse finora.

«Ci sono molte testimonianze inedite, dei miei fratelli e dei miei compagni di squadra, e altrettanti filmati mai visti. Ad esempio io stesso non avevo mai visto quello in cui i Chicago Bulls e i Los Angeles Lakers ascoltarono al telefono il sorteggio fatto con una monetina per stabilire chi tra i due dovesse avere il diritto di fare la prima scelta ai draft universitari e farmi firmare. Vinsero i Lakers e sappiamo com’è andata».

Non solo trionfi: la sua vita è stata anche piena di momenti difficili.

«In campo ho sempre pensato a una sola cosa: vincere più campionati possibile e battere i miei due più grandi rivali, Larry Bird e Michael Jordan. Purtroppo nell’unica finale in cui ho incontrato Michael ho perso e non c’è stata la rivincita. Quanto alla mia vita privata, il momento più difficile è stato quando ho annunciato che ero sieropositivo: all’epoca infettarsi equivaleva a una condanna a morte e il solo fatto che sono qui, 30 anni dopo, a poter raccontare quell’esperienza, è stata una vera benedizione».

Nella serie si parla anche del suo soprannome, Magic, affibbiatogli da un giornalista quando lo vide a giocare a 15 anni.

«Quel soprannome per me vuol dire fare la cosa giusta per avere un impatto positivo sulla gente. Ma non è stato facile portarselo addosso, perché ha alzato enormemente le aspettative degli altri e mi ha fatto sentire un’incredibile pressione. Per questo, come dico nel documentario, ho sopportato il peso di essere Magic, ma di tanto in tanto ho scelto di essere semplicemente Earvin».

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