Malesani: «L’allenatore bravo non fa danni. I calciatori professionisti pensano di sapere tutto»
Una bellissima intervista sul Foglio Sportivo: «In Italia c’è più attenzione a entrare nella Champions che a vincerla. E’ una mentalità al ribasso. Non si vince senza una società all’altezza»

Il Foglio Sportivo ospita una bellissima intervista ad Alberto Malesani firmata da Roberto Perrone. L’ex allenatore passa le giornate nella Val Squaranto, a nord est di Verona, dove ha piantato una vigna e creato la cantina “La Giuva Vinery”, dal nome delle due figlie, Giulia e Valentina, che lavorano con lui.
L’ultima sua esperienza in panchina risale al 2014, con il Sassuolo: subentrò ad Eusebio Di Francesco, collezionò 5 sconfitte in 5 partite, tanto che Di Francesco fu richiamato al suo posto.
«Quando sono arrivate le partite che dovevamo e potevamo vincere, mi hanno mandato via».
L’addio al calcio è arrivato nel 2020.
«Ci penso poco, al calcio, ormai mi sento più vigneron».
Al tramonto, si siede a guardare la sua vigna.
«Adoro guardare la campagna con un bicchiere in mano, Amarone o Rientro, con un pezzetto di parmigiano e una fetta di salame della Lessinia. Questo è il mio aperitivo solitario con la campagna davanti. È fantastico».
Ma il calcio non è sparito dalla sua vita.
«Però il calcio lo seguo ancora, magari nei momenti più belli, nelle partite di cartello, come quelle europee, la Champions, le grandi sfide. Non è per snobismo, bada, è che non mi arriva più dentro la pancia. Si è abbassata la saracinesca, anche se il calcio mi ha dato tanto, e lo ringrazio. Tra le tante opportunità anche quella di fare l’aperitivo in mezzo alla natura, tra le mie vigne».
Racconta il suo rammarico nell’ultima esperienza calcistica.
«Sai perché mi è dispiaciuto che sia finita così con il calcio? Perché io ero sempre in fase di sperimentazione, avevo sempre nuovi progetti e mi piaceva completarli, ma con l’ultimo non ci sono riuscito. Sono sempre stato uno che ha avuto la voglia di analizzare tutto, allenavo tra sperimentazioni e risultati. La bellezza del calcio per me era questa, sperimentare e fare risultati».
Gli è rimasta la sensazione di non aver potuto trasmettere ai calciatori ciò che aveva dentro.
«Sono contrario ai droni, al calcio dalla tribuna, ai video dall’alto. Io pensavo all’allenatore che entra dentro l’occhio del calciatore, io pensavo a questo, a un lavoro particolare, nuovo. Vedo più la telecamera nella testa di un giocatore che un drone sulla sua testa. Ero più avanti della match analysis. Facevo un lavoro di questo tipo. Nei corsi si insegna come allenare i giocatori ma non come allenare un allenatore. Io sentivo la necessità di abbandonare il lavoro sul sistema di gioco e di farne uno tridimensionale sul giocatore».
Il suo rammarico è non essere riuscito a portare a termine il progetto.
«Avevo anche pensato di trasmetterlo ai dilettanti, ai giovani, perché i professionisti sono sordi, pensano di sapere tutto».
Dal 2014, però, qualche proposta di tornare in panchina gli è arrivata.
«Ma l’unica che mi interessava veramente era quella di una Nazionale».
Forse, dice, non aveva gli agganci giusti.
«Ecco, purtroppo in Italia pensano che l’esperienza e l’età siano una zavorra. In realtà l’esperienza andrebbe messa a frutto, andrebbe utilizzata, magari per sostenere i giovani».
Continua:
«A livello calcistico gli allenatori dovrebbero essere guidati. Coverciano dovrebbe essere una fucina di allenatori con allenatori di una certa età a insegnare. I maestri non sono quelli come Guardiola o altri stranieri, bisognerebbe ricorrere alla sapienza degli italiani».
Gli viene chiesto se, tra gli allenatori in circolazione, ce n’è uno che gli piace più degli altri. Risponde:
«Mi piace da morire Allegri, perché è pratico, intuitivo e magari, inconsciamente, entra in quel lavoro nella testa dei giocatori di cui ti parlavo. Lui crede di più al giocatore che a tanti discorsi. C’è chi lo ha discusso, sostenendo che non è al passo con i tempi. Invece è avanti, cura l’aspetto visivo dei giocatori, non il suo, così esalta le sue qualità rendendolo felice nel ruolo che gli piace. Tutti pensano che sia facile vincere cinque scudetti alla Juve, ti assicuro che non è facile».
Sul gap di competitività delle squadre italiane in Europa.
«La faccenda è seria. Noi come fatturati siamo sotto e quello è il primo e più importante aspetto. Il secondo è che in Italia c’è più attenzione a entrare nella Champions che a vincerla. Ed è lo stesso ragionamento che fanno in basso, c’è più tensione a salvarsi che a costruire qualcosa di più. Ma ti sei accorto che quelli che arrivano tra le prime quattro è come se avessero vinto in campionato? Anzi, diciamo che lo scudetto è un accessorio. La chiamo mentalità al ribasso».
E propone un rimedio.
«Ci vogliono allenatori bravi a preparare le partite singole. Allegri è uno di questi, infatti è l’unico da più di dieci anni in qua ad aver giocato due finali di Champions. L’allenatore è un manager, ma deve fare anche altro, deve esaltare al massimo le capacità dei giocatori».
Malesani torna sulla questione fatturato.
«La storia della squadra al servizio dei giocatori ha fatto il suo tempo. Da Trapattoni a Sacchi, da Capello a Conte, mai avrebbero potuto vincere senza una società all’altezza. Quando Berlusconi è entrato nel calcio, la prima cosa che ha fatto è stata quella di aumentare il fatturato e ha investito nei migliori giocatori, come Donadoni in Italia e Gullit all’estero. Poi tutti gli altri. Bravissimo Sacchi e dopo di lui Capello, ma quello che ha fatto la differenza è stato investire tanti soldi nei migliori giocatori, prendere un buon allenatore e avere nel club un buon gestore come Galliani. E l’operazione è riuscita. Alla fine l’artefice principale è sempre la società. Io ad Agnelli, ad esempio, faccio i complimenti. Tutti lo massacrano, invece io dico che ha fatto bene, bisogna investire nel fatturato, questa è la strada da percorrere».
Ma l’allenatore è fondamentale.
«Conte gli ha fatto fare il cambio di mentalità, gli ha cambiato la testa, ai giocatori, ma non solo a loro. Ha fatto capire a tutti che non basta stare all’Inter per sentirsi realizzati, ma bisogna vincere. Conte è un martello non tanto in campo, ma per come gestisce il cambiamento nella testa».
Continua:
«Comunque la bacchetta magica non ce l’ha nessuno, l’allenatore è importante ma se riesce nella formazione del giocatore, se sa entrargli nella testa».
E racchiude tutto in una frase.
«L’allenatore bravo non fa danni».