Il Foglio: gli stadi non serviranno più, la pandemia ha interrotto il rapporto tra sport e massa
La pandemia ha definitivamente sancito il passaggio (iniziato dalle tv) dello sport "da mito popolare a intrattenimento individuale e digitale, alimento della solitudine collettiva che è la cifra del nostro tempo"

Sul Foglio Sportivo un’interessante analisi di Giovanni Francesio sul rapporto tra sport e masse. La pandemia lo ha definitivamente rotto, scrive, completando un processo iniziato dalle televisioni.
Francesio analizza l’importanza che ha avuto lo sport nel ventesimo secolo, sia per la sua carica simbolica che per la sua ricaduta sociale, politica e culturale.
“Non c’è un evento storico del Novecento, una battaglia politica e civile che non abbiano avuto anche una dimensione sportiva, a cominciare dalla cupa e terribile stagione dei totalitarismi”,
quando lo sport è stato sia strumento di propaganda dei regimi sia veicolo simbolico della resistenza ad essi. Elenca decine di esempi, come Cassius Clay, finito in carcere perché non voleva arruolarsi, o le magliette rosse di Bertolucci e Panatta in Cile nel 1976.
La commistione tra sport, società e politica viene dal rapporto strettissimo che nel Novecento lo sport ha avuto con la massa, intesa come faceva Elias Canetti, ovvero come
“l’unica dimensione nella quale “l’uomo può essere liberato dal timore di essere toccato […]. Dal momento in cui ci abbandoniamo alla massa, non temiamo d’esserne toccati. Nel caso migliore, si è tutti uguali. Le differenze non contano più, neppure quella di sesso. Chiunque ci venga addosso è uguale a noi. Lo sentiamo come ci sentiamo noi stessi”.
Alla fine degli anni Ottanta, però, il rapporto tra sport e massa bar si è incrinato a causa della televisione, che
“ha cominciato a impadronirsi con prepotenza dello sport, imponendo sempre più il proprio racconto a quello della massa, e alla fine, grazie al miglioramento della tecnologia e al proliferare delle telecamere, sostituendolo: non più una moltitudine che si faceva un corpo solo, e che si alimentava di una narrazione polifonica, ma un racconto univoco che si rivolge istantaneamente a milioni di singolarità, e di solitudini”.
L’avvento della rivoluzione digitale, con i social, non hanno fatto che radicalizzare tutto,
“affiancando al racconto il commento, che oggi si esercita in diretta, con una immediatezza fagocitata, isterica e totalmente autoreferenziale che finisce per compromettere non solo il fascino, ma il senso stesso dell’evento sportivo, completamente soverchiato, marginale, pretestuoso. Non c’è più il racconto, non c’è più il fatto. Tutto diventa opinione, tutto diventa commento”.
Infine, è arrivata la pandemia, che “ha disintegrato il fascino della massa”.
“Non c’è niente, niente, che rappresenti meglio la fine del Novecento come i nostri stadi vuoti degli ultimi mesi, relitti di un mondo finito, cattedrali di un altro tempo, tra l’archeologia e “Call of Duty”. E li vediamo così, proiettati nel futuro, abbandonati, perché c’è qualcosa che ci dice che non serviranno più, perché i secoli finiscono, e le cose cambiano, e lo sport in questi pochi ma definitivi mesi ha concluso il suo trapasso da mito popolare a intrattenimento individuale e digitale, alimento di quella solitudine collettiva che sempre più sembra essere la cifra del nostro tempo nuovo”.