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La triste verità è che in Italia le scuole calcio assecondano i genitori

Altro che genitori su una montagnola, come a New York. Qui è tutto un pucci pucci, con i mister e le società accondiscendenti. Non è vero che il loro obiettivo è educare

La triste verità è che in Italia le scuole calcio assecondano i genitori

Da noi i genitori non stanno su una montagnola

Ho letto con molto interesse l’articolo del Corriere dello Sport in cui si racconta lo ‘strano caso’ della scuola calcio newyorkese in cui i genitori sono tenuti a distanza, “in cima a una montagnola, vicino all’ingresso” https://www.ilnapolista.it/2019/03/a-new-york-scuola-calcio-vietata-ai-genitori/. È un unicum, è vero: qui da noi, purtroppo, non succede. 

In Italia i genitori vengono ascoltati e accontentati troppo spesso, a scapito dei ragazzi. 

Da noi, troppo spesso, mister e dirigenti si trattengono a chiacchierare amabilmente con i genitori dei loro allievi. Se la scuola calcio attinge da un ristretto ambito territoriale, capita che il mister (o il dirigente) sia cliente, ex compagno di classe, fratello, zio o cugino del padre del campioncino in erba. Insomma, che siano in atto delle liaisons difficili da sconfessare con scelte impopolari come quella di lasciare fuori squadra il piccolo fenomeno di mamma e papà o di dargli semplicemente uno spazio uguale a quello di tutti gli altri.

Da noi capita che un genitore iscriva suo figlio a una scuola calcio perché magari gli piace il regolamento che adotta, oppure la filosofia di vita e di crescita che si propone di realizzare per i ragazzi, ma che poi scopra che le regole non valgono per tutti e che l’unica cosa che serve fare è andare a bussare alla porta del mister o del dirigente. Di fronte al venir meno dello sconto al supermercato, del favore in municipio, del biglietto omaggio per il concerto, o di una rata mensile certa, chi è che in fondo non chiuderebbe l’occhio davanti a una piccola trasgressione?

In America nessuno, forse. Il principale finanziatore è pure contento se il mister gli dice che il figlio deve giocare in seconda squadra. Ma qui è diverso.

Qui capita che la regola del tempo equivalente di gioco per tutti non valga uniformemente, ma che ci sia chi di tempi ne gioca tre o quattro a partita, chi gioca tre partite a weekend e persino chi viene convocato anche se non si allena tutta la settimana. Capita che, se nella propria squadra di appartenenza un piccolino non ha lo spazio che i suoi genitori ritengono dovrebbe avere, il piccolo fenomeno venga convocato in una categoria superiore. Poco importa se a quel posto avrebbero diritto altri della categoria giusta. Capita perché mamma e papà lo desiderano, perché il loro figlio, nella loro testa, è meglio dei figli degli altri. 

La mentalità italiana

Direte: è un problema atavico dei genitori italiani. Sicuramente. Ma perché non proviamo a ribaltare l’ottica? E se fossero le società calcistiche a chiudere davvero le porte, a dimenticare i rapporti personali quando si varca la soglia del campo? E se mister e dirigenti non si lasciassero sopraffare dalle pressioni, davvero i genitori continuerebbero a essere così diseducativi? O piuttosto si riuscirebbe ad educare prima di tutto i maggiorenni e poi la loro prole?

Era il 2013 quando Repubblica pubblicava la sua inchiesta sulle scuole calcio https://www.repubblica.it/sport/calcio/2013/10/14/news/scuole_calcio_inchiesta-68533738/. All’epoca ne esistevano oltre 7mila, ogni anno erano 300mila i ragazzi che iniziavano a giocare a calcio. Solo uno su 5mila diventa calciatore, scriveva il quotidiano. Una cosa che, all’epoca, mi rimase impressa.

Di fronte a questo dato, il vero obiettivo (e successo) delle scuole calcio non dovrebbe essere piuttosto quello di formare gli sportivi del futuro? Di plasmare ragazzi con una filosofia di vita, un’etica, una disciplina e una motivazione? È davvero tanto più gratificante accaparrarsi rette di iscrizione come fossero caramelle, limitandosi ad assecondare alcuni genitori, salvo poi non restituire, in cambio, valori umani, consapevolezza di se stessi, attenzione? 

Da noi i mister non sono preparati

I ragazzi, soprattutto quelli in età pre-agonistica, hanno un unico obiettivo: fare sport divertendosi, essere liberi. Se guardiamo indietro alla nostra adolescenza ricordiamo i maestri che ci hanno messi in condizione di esprimere le nostre potenzialità, che ci hanno aiutati a scoprire quali fossero, a tirarle fuori, a coltivarle. Allo stesso modo faranno i nostri ragazzi. Non ricorderanno i risultati delle partite, e neppure i voti scolastici o gli esami universitari. Ricorderanno – in negativo – un mister che li avrà ingabbiati in un ruolo senza curarsi del fatto che ha tolto loro il sorriso, motivazione e autostima, e tutto per la sua autoreferenzialità.

L’autoreferenzialità di cui parla Giovagnoli nell’articolo del Corriere dello Sport, dando ragione a Massimiliano Allegri, secondo il quale nei campi di allenamento nostrani si lavora per la “meccanizzazione dei giovani”, per lo svilimento della loro fantasia e della loro creatività. Ma al ragionamento manca un pezzo: i mister, spesso, non preparati adeguatamente, né sul piano tecnico né su quello pedagogico, avallati da società con confini e traguardi troppo limitati, si dedicano alla tattica più che allo sbizzarrimento della fantasia proprio perché ascoltano i genitori e assecondano le loro pressioni che, il più delle volte, riguardano aspetti tattici, appunto, piuttosto che la libertà dei propri figli. Insomma, chi dovrebbe fermare i carnefici diventa egli stesso un carnefice, in nome di rapporti tra adulti che non hanno senso di esistere in un mondo in cui i protagonisti dovrebbero essere i ragazzi.

I genitori sono il male, certo. Lo vediamo nelle scuole, sui campi di pallone, nelle chat scolastiche, in fila al cinema, ovunque. Ma forse è peggio se chi ha il potere e il giusto ruolo per tenerli a bada non lo fa, se chi ha nelle mani il futuro psichico e fisico dei ragazzi se ne frega, se non sono gli adulti super partes che salvano i ragazzi così martoriati da mamma e papà.

E poi, diciamocelo apertamente: ma se la mamma e il papà di Tizio vengono accontentati a mani basse in virtù delle liaisons di cui sopra, perché la mamma e il papà di Caio non dovrebbero andare a bussare anche loro alla porta dei dirigenti e dei mister/maestri per avere uguale trattamento? Perché dovrebbero considerarsi figli della gallina bianca? E allora diventa tutto un circolo vizioso, un enorme buco nero in cui sono risucchiati degli innocenti.

Alla fine, è tutta un grande ipocrisia.

Se chiedi a un qualsiasi dirigente quale sia il suo obiettivo ti dirà che non è quello di vincere le partite e neppure il campionato, ma di far crescere i ragazzi e di educarli. Tutti avranno accolto l’esempio newyorkese come un modello cui aspirare, senza rendersi conto che la bruttura e la stortura la creano loro ogni giorno.

Quelli che oggi osannano l’Accademia di New York, sono magari gli stessi che in campo schierano sempre i figli dei genitori che pensano di aver generato fenomeni, che vanno a bussare alla porta e ottengono ciò che vogliono. E così i ragazzi imparano fin da piccoli che chi dovrebbe educarli (genitori e maestri) non perde un attimo del suo tempo a farlo. Imparano che le scuole calcio sono solo dei grandi macelli, in cui si viene sacrificati in nome di una retta perché, tanto, nel calcio solo uno su 5mila ce la fa.

Ma quello che ce la fa non è certamente, il più delle volte, il figlio dei genitori che le scuole stesse hanno deciso di ascoltare. Tra l’altro, quelli che alle spalle hanno sempre mamma e papà che bussano alle porte – e quelli che le porte, ai genitori, le aprono sempre – sembrano anche un po’ sfigati.

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