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Bruscolotti: «Diaz quello schiaffo lo meritava. Elkjaer lo aspettai nel sottopassaggio ma si infilò tra gli arbitri»

L’intervista a La Stampa: «Non facevo toccare palla, in un modo o nell’altro, però la cattiveria l’ho sempre osteggiata»

Bruscolotti: «Diaz quello schiaffo lo meritava. Elkjaer lo aspettai nel sottopassaggio ma si infilò tra gli arbitri»

Giuseppe Bruscolotti intervistato da La Stampa, a firma Antonio Barillà. Ecco qualche estratto.

Lei era il classico «duro»…
«Difendere era il mio mestiere. E la parola dice tutto. Non facevo toccare palla, in un modo o nell’altro, però la cattiveria l’ho sempre osteggiata. Ho smentito chi mi ha accusato di mirare alle caviglie, ma ancor prima lo ha smentito la mia carriera: poche espulsioni e avversari diretti sempre usciti con i loro piedi dal campo. Al massimo lagnandosi, ma quello ci sta».

I conti sospesi con Elkjaer sono diventati leggenda.
«Cominciò lui, a Verona, con una gomitata allo stomaco che mi tolse il fiato. Mi avvicinai e gli dissi “da questo momento aspettati di tutto” e al primo pallone spiovente lo colpii al ginocchio. E non è tutto: quando cadde, con la scusa di rincuorarlo, mimando una carezza, gli strizzai l’orecchio e chiesi se aveva capito. A Napoli, al ritorno, non giocò, e quando in un’altra occasione entrò dalla panchina chiesi a Ferrario di invertire le marcature. Lo presi in consegna io e non passò la metà campo».

Si narra che lo aspettò anche nel tunnel.
«Chiesi a Castellini di fare quello che chiamavamo blocco, o gabbia: fermarlo o rallentarne il passo, poi sarei arrivato io. Sì, a quei tempi capitavano anche le scazzottate nei sottopassi, ma anche quelle finivano lì. Elkjaer, però, capì tutto e si infilò in mezzo alla terna arbitrale».

Bruscolotti e l’inseguimento a Beenhakker

Nello spogliatoio del Bernabeu, nel 1987, inseguì anche Leo Beenhakker, l’allenatore del Real Madrid.
«Ci aveva chiamati mafiosi, purtroppo non riuscii a raggiungerlo. E anche a Napoli rimase a distanza».

Spifferi di spogliatoi raccontano di uno schiaffo a Ramon Diaz, compagno di squadra, in realtà non da bulletto ma da fratello maggiore.
«Erano altri tempi: a volte una manata serviva per dare un indirizzo, come con i figli. Rischiavamo di retrocedere, gli chiesi di impegnarsi e lui rispose che non gli fregava. Era il mio Napoli, la mia gente: lo rifarei».

Lo scudetto.
«Vincere nella mia terra, con la mia unica squadra, è stato meraviglioso. E mi ha risarcito di tante ingiustizie, la Nazionale su tutte: non pretendevo chissà cosa ma avrei meritato di vestirlo almeno una volta, l’azzurro. Non ero inferiore ad altri, invece è andata così: è l’unico rimpianto che ho».

Le manca il suo calcio?
«Se rispondo sì, mi prendono per nostalgico o, peggio, rincoglionito. Diciamo che non mi diverte quello di oggi: con tutti quei passaggini, con la costruzione dal basso, lo trovo noioso». 

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