La sua è “una sofferenza a più livelli: morte sportiva costruita sulla morte effettiva, in un posto dove il calcio va a rannicchiarsi e a morire”

Steven Gerrard non sorride più. Fa le smorfie. Jonathan Liew scrive che è “una sorta di compressione ed esplosione simultanee”. E’ una sua espressione tipica, “più come un ringhio, un urlo di rabbia e sfida ed esorcismo e rivendicazione”. La felicità “è sempre stata una cosa che Gerrard preferiva lasciare agli altri”.
L’editorialista del Guardian ha visto il nuovo documentario di Netflix sul calcio saudita e ha notato che Gerrard proprio non sorride. Ha “quell’espressione accartocciata, assente, vagamente smorfiosa, con le mani in tasca, un’espressione da scorribanda alle 2 di notte, l’espressione di un uomo che si prepara per la terza ora del suo corso di consapevolezza sui pericoli della velocità”.
“Gerrard è una presenza stranamente inerte davanti alla telecamera. Persino una sequenza inserita per aggiungere un po’ di leggerezza – una partita a calcio con suo figlio – si trasforma in un nonnismo leggermente straziante di un bambino di sette anni”.
Sarà perché “Gerrard non è stato in grado di ispirare l’Ettifaq a imprese sovrumane. Sono undicesimi in Pro League, con 11 gol in 13 partite”. Se la passa male, insomma.
Liew capovolge la prospettiva, e usa Gerrard per parlare del nuovo calcio arabo: “Ecco qui la lega più ricca e ambiziosa del mondo: un tempio dell’eccesso, della decadenza e del potere delle star, un parco giochi per playboy dove il denaro non è un problema e la morale non ha posto. Nel frattempo tu, Steven Gerrard, sei uno dei più grandi calciatori della tua generazione, una capsula del tempo ambulante di gol sorprendenti e ricordi preziosi, che poi ha vinto il titolo di campionato nel suo primo incarico da allenatore ed era fondamentalmente considerato uno dei giovani allenatori più promettenti d’Europa. Come si passa da quello a questo?”
“Il problema qui è la semplice mancanza di gioia, il senso di inerzia, la lenta discesa verso l’irrilevanza. Praticamente ogni giocatore o allenatore che si trasferisce in Arabia Saudita ha dovuto lottare con lo stesso dilemma transazionale: stai rinunciando alla visibilità, al vantaggio competitivo, a qualsiasi bussola etica che potresti aver posseduto una volta. Cosa ottieni in cambio?”.
Sì, ok, i soldi. Ma “se i soldi fossero la sua ragione d’essere, Gerrard avrebbe lasciato Liverpool e avrebbe accettato una delle numerose offerte redditizie che gli sono arrivate quando il mondo era ai suoi piedi. A un certo livello, sembra davvero credere al discorso che continua a snocciolare sul voler uscire dalla sua zona di comfort, per sfidare se stesso, per migliorare”.
E però invece la realtà dice il contrario. Ha trasferire la sua famiglia nel vicino Bahrein. Programma gli allenamenti in modo da non perdersi le partite del Liverpool. I suoi social sono un flusso di nostalgia per Liverpool. Il gioco che un tempo cavalcava, lo ha sostanzialmente lasciato indietro”.
“Gerrard era il giocatore che sapeva sempre dimostrare grandezza. Una partita noiosa, un mese senza gioia, una stagione di sofferenza, potevano sempre essere riscattati in un istante con un lampo di puro genio, e lui lo sapeva, e cosa più importante lo sapevano tutti gli altri. Ma quando sei in piedi sulla linea di fondo davanti a migliaia di posti vuoti a guardare Abdullah Madu che rilancia la palla in un loop infinito, cosa puoi più offrire? Altre chicche tristemente dimenticabili su sudore e sacrificio?”
Liew scrive che quella di Gerrard è “una sofferenza a più livelli: morte sportiva costruita sulla morte effettiva, in un posto dove il calcio va a rannicchiarsi e a morire. La Saudi Pro League promette ai suoi partecipanti molte cose: ricchezze, lusso, adulazione. Ma la felicità non è mai stata una di queste”.