Non bastava il patologico recupero. L’evento calcio è ormai stato snaturato, manca un ultimo tassello. Poi andranno bene anche gli auguri allo stadio
Manca solo il Var a chiamata per trasformare il calcio nel baseball: le partite dureranno tre ore
Nessun editor degno del mestiere ha ancora proposto a Nick Hornby di scrivere il sequel di Febbre a 90′? Il titolo è già in bozza: febbre a 110′. Con la dilatazione patologica del recupero, c’è tempo per tutto. Perché il calcio si avvia forzosamente a diventare un evento contenitore, come quei varietà che una volta la prima serata consumava in tempo per mettere i bambini a letto “che domani c’è scuola” e che adesso finiscono in veglione.
La Var ha aperto un mondo. Ha squarciato la sacralità dei novanta+recupero per riparametrare tutto con un’altra metrica. Prima in Italia l’intervallo era uno solo, istituzionale – strano non l’abbiano ancora battezzato “pissing break” – al massimo c’era quello Rai con le pecorelle e il jingle ipnotico. Ora invece siamo alla frammentazione inconsapevole del segmento “partita”: tante pause, sospensioni, soste. Tutti non-luoghi da sfruttare, da riempire d’altre cose. Li sommi e avrai la partita-maratona, una creatura oversize che già fatichiamo ad arginare. Una Sanremo.
La Var non è solo uno strumento tecnico per dirimere i dubbi dell’arbitro in campo, è l’innesco di una rivoluzione oraria, della trasformazione del prodotto finale, della sua stessa “fruizione”, come dicono quelli bravi. Sta modificando la percezione del pubblico, l’approccio, l’investimento in termini di tempo da parte dello spettatore. E se la via pare tracciata per l’introduzione della Var a chiamata, quanto arriverà a durare una partita di calcio? E non vogliamo metterceli i time-out? In Nba al mercato dei diritti pubblicitari vanno via come gli hot dog.
E infatti non ci inventiamo niente (non sia mai), è un modello che esiste già: la partita di baseball negli Stati Uniti. Lunghissima, stiracchiata. Un gigante affollato di amenities collaterali, che per lo più hanno a che fare con l’ingurgitare grassi saturi e zuccheri. Alimentato dal tifoso sempre meno appassionato e sempre più consumatore. Il calcio inglese ha un sacco di modi per definirli: plastics, casuals, fakes, frauds, tourists, day-trippers, trolls, haters, fair-weather fans, glory-hunters. E noi uno soltanto: gli “occasionali”. L’occasionalismo così inteso è un target di marketing. In termini commerciali si spiegano così le grandi e redditizie amichevoli estere, i pacchetti turistici, i megastore e i ristoranti negli stadi moderni.
Andare allo stadio oggi è già un’esperienza emotivamente scostante. Comoda, certo, ma anche molto convenzionale: le stesse musiche a palla ovunque, gli stessi speaker col piglio da animatore di villaggio Valtur, persino la medesima – tristissima – contumacia degli ultras sugli spalti. Entrano alla fine, come a teatro richiamati dalle maschere. Intanto in campo la regia fa riscaldare un qualunque carneade del Venezia al ritmo di “Life is life”. C’è gente che è andata in depressione per molto meno.
È una metamorfosi ineluttabile, che paradossalmente va di pari passo con l’inseguimento commerciale alla generazione che spollicia sui social, quella che – dicono – vive un’esistenza sincopata, per highlights. È un elastico: la tiriamo per le lunghe, e poi proviamo a vendere l’evento a tranci. Invece di uccidere i tempi già morti, ne rianimiamo altri. Chiamiamo un’altra Var, vediamo se così la febbre a 110′ passa.