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Basta con la Lazio del 74. C’è tanta altra Lazio da raccontare, a cominciare da Eriksson

Il romanzo laziale anziché reagire al maledettismo ci si è tuffato dentro. Si è brigato molto per convincere la Lazio a invitare Sven Goran, domenica ci sarà

Basta con la Lazio del 74. C’è tanta altra Lazio da raccontare, a cominciare da Eriksson
Lazio Rome's head coach Swedish Sven Goran Eriksson looks at his team before the Italian first soccer league 's match Lazio Rome - Brescia, 01 November 2000, at the Rome's Olympic Stadium . Eriksson will be the next coach of the English National team. On the left Lazio Rome assistant coach, Italian former star Roberto Mancini, who will be the next Lazio's head coach AFP PHOTO GABRIEL BOUYS (Photo by GABRIEL BOUYS / AFP)

Basta con la Lazio del 74. C’è tanta altra Lazio da raccontare, a cominciare da Eriksson

Lo scudetto laziale del 1974 ha varcato il Rubicone dei 50 anni. Mezzo secolo a Roma è la soglia minima per entrare nella cronologia larga e profonda della città, quella che ha a che fare con una diversa dimensione del Tempo. Giornalisticamente ci si rivede tra 20 anni. Chissà chi rimarrà di quei cinque ultimi protagonisti, “siamo rimasti in cinque, cinque contro tutti”, ha scritto Luigi Martini su facebook mesi fa dopo la morte prematura di Vincenzo D’Amico. È un pensiero triste ma in età adulta l’unico mondo da evitare è quello degli impreparati. Come tutte le imprese la Lazio 1974 si è conquistata da subito la sua retorica, il suo motivo di esistere nell’albo d’oro della serie A, il primo scudetto a Roma dal dopoguerra, il big bang da cui nascono tutte le statistiche moderne della Lazio.

Lo so, ne hanno parlato già in molti. Nel cinquantenario nessuno ha resistito alla tentazione dell’ennesimo bignami sulla Lazio di Maestrelli, una storia che ormai ha un suo titolo, uno svolgimento, un finale, e una retorica. È naturale: si diventa retorica per sopravvivere. L’epica immediata del 1974 si è fatta leggenda da tramandare, dalla leggenda si è passati al culto da tenere vivo, dal culto si è passati alla santificazione, raggiunta molto tempo prima dell’anniversario pieno festeggiato all’Olimpico e all’Auditorium, con i reduci commossi e i figli degli scomparsi, uomini fatti, commossi anch’essi, ma consapevoli di una memorialistica cittadina che non li ha mai abbandonati.

L’ortodossia del tifo laziale, ovvero la Lazialità, termine coniato negli anni ‘80 da Michele Plastino, poi ripreso nella storica rivista da Guido De Angelis, nasce con l’obiettivo di non abbandonare la memoria dello scudetto 1974 minacciata da negli anni successivi da morti, fughe e ritorni disastrosi, scandali e retrocessioni. L’obiettivo è stato raggiunto da tempo. All’appuntamento con i suoi 50 anni questa retorica arriva già pronta, rodata, allenata, anticipata mille volte, trasformata nei decenni in una celebrazione senza sosta, sempre aperta, open mic: una rievocazione su tutti i media, un accumulo impressionante di voci e aneddoti, ospitate e speciali, interviste, pubblicazioni a grande tiratura sui quotidiani, decine di libri in gran parte per editori misconosciuti (anche i rincalzi come Franzoni, ma basta anche qualche presenza come Manservisi, hanno il loro libro sull’epica dello scudetto). Il 1974 e la sua coda lunga (durata fino agli spareggi serie B 1987) sono stati passati ai raggi x, sistematicamente, quotidianamente, grazie in larga parte al mondo delle radio e delle tv locali. Oggi sono i social che hanno in custodia il museo Lazio, aperto h24.

Il romanzo della Lazio si è tuffato nel maledettisimo

Ovviamente il dna del 1974 è rimasto lì a covare come un memento e un anticorpo, prima ai tempi di Cragnotti poi con l’avvento di Lotito. Ma non è questo il punto. Se la storia è diventata un mito a disposizione di tutti, la retorica si è cristallizzata in un amarcord raccontato da un lessico nostalgico e iperbolico, il carattere della squadra è diventato caratteraccio, la squadra potente è diventata la sporca dozzina, orgogliosamente imbastardita ai danni del valore dei giocatori. E ancora: il romanzo laziale anziché reagire al maledettismo ci si è tuffato dentro. Ci sono state anche forzature, dettagli diventati per forza leggenda, e qualche leggenda di troppo, lasciata lì per benevolenza. Tutto questo non ha portato con sé una riflessione sulla memoria e sul tempo, se non la malinconia, che però è sempre emotività. Le ultime morti di Wilson e D’Amico, oltre a quella roboante di Chinaglia, hanno inevitabilmente serrato le fila della retorica del 1974. Lo stesso Lotito durante le celebrazioni ha scritto una lettera virtuale a Umberto Lenzini, il presidente dello scudetto morto nel 1987, a cui si è paragonato per la responsabilità della gestione di casa Lazio.

Il discorso intorno allo scudetto del 1974 è diventato un’arca di Noè, affollata di dettagli e contesti, particolari e sovrastrutture, uno per tutti il microcosmo di Tor di Quinto e gli anni 70, dove in molti hanno provato a entrare per poter raccontare quella stagione e i suoi protagonisti, finendo però in un gioco di specchi e ripetizioni, di energie disperse se non svalutate almeno sfiancate, come accade per gli articoli revival su Woodstock. Si poteva dire invece qualcosa di diverso, dicendo di meno? Di recente l’ambiente si è meravigliato quando Sarri ha avuto parole di affetto verso Maestrelli. Come se il mito del ‘74 soffrisse di mancanza di affetto, e dell’affetto più mediatico, la visibilità.

Il paradosso è che di tanta storia romana quella della Lazio del 1974 è la meno archeologica: si fa finta di scavare quello che si sa già perché si sa praticamente tutto. Eppure un attento giornalista come Francesco Troncarelli lamenta che nelle celebrazioni non sono state ricordate le figure dei capi dei Lazio Club, all’epoca realtà molto presenti, quando il mondo ultrà non esisteva ancora.

La realtà è che da quell’arca la Lazialità non è ancora scesa per salvaguardare la memoria dello scudetto del 2000. C’è chi ha brigato molto per convincere la società a invitare di nuovo l’allenatore dello scudetto 2000 Sven Goran Eriksson in occasione di Lazio Sassuolo, ultima di campionato, per celebrarlo in un momento drammatico della sua vita (il 2000 ha già perso Sinisa Mihajlovic). Lo hanno fatto in questi mesi Liverpool, Benfica, Goteborg, Sampdoria. A Marassi Eriksson si è trovato di fronte Roberto Mancini, l’artefice dello scudetto laziale del 2000, e per coincidenza anche Alessandro Nesta il capitano della sua Lazio, ora allenatore della Reggiana. In un mondo che vive di comunicazione, la foto che immortala l’incontro dei tre in esilio è il segnale che il 1974, oggi cinquantenne, deve considerarsi libero, esonerato dalla fabbrica della memoria, non deve rendere più conto a nessuno. È entrato nel fondale Roma, non ne uscirà più. C’è tanta altra Lazio da raccontare.

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