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Il razzismo spiegato al tifoso

Tahar Ben Jelloun a Napoli ci venne proprio a vivere. Da Sarri e Mancini a Acerbi e Juan Jesus. Ma presto, molto presto, nessuno ricorderà

Il razzismo spiegato al tifoso
French Moroccan writer Tahar Ben Jelloun poses during a photo session in Paris, on September 13, 2023. (Photo by JULIEN DE ROSA / AFP)

Il RAZZISMO SPIEGATO AL TIFOSO

«Si è sempre lo straniero di qualcuno.»

Tahar Ben Jelloun mentre spiega il razzismo a sua figlia somiglia al professore intrappolato in ascensore assieme a Cazzaniga, nel finale di “Così parlò Bellavista”. Del resto, lo scrittore in lingua francese più tradotto al mondo, a Napoli ci venne proprio a vivere. Erano i primi anni del Duemila. Periodo molto cupo, intorno allo 081, calcisticamente parlando. Il marocchino più famoso veniva da Lisbona, Abdelilah Saber. Terzino di spinta. I poeti nati a Fès non potevano immaginarlo. Specialmente se il club di Maradona falliva in Tribunale. Lasciando scorato un pubblico già disilluso da dismissioni e retrocessioni continue.

«Napoli urla da ogni parte come un’ossessa. Le sirene delle ambulanze, le auto della polizia che corrono a tutta velocità con i lampeggianti sul tettuccio, venditori di tutto che urlano, spazzini che avvisano la popolazione, donne che litigano da un lato all’altro della strada, ognuna alla sua finestra, bambini che giocano a pallone e che fanno cadere una persona senza una gamba, una madre chiama Sandro perché venga a mangiare prima che la pasta si raffreddi, la televisione replica una partita di calcio dove il Napoli non gioca, ma i televisori sono tutti accesi. Ci si mette anche il vento, portando con sé le voci e i rumori del mare, i muri risuonano, le pietre rimandano l’eco. Napoli vive rumorosamente, non conosce il silenzio, il silenzio deve farle paura, allora tutti gridano e urlano, questa è la vita, la vita a Napoli…».

“Il labirinto dei sentimenti” racconta una città che forse non è (mai) cambiata. Soprattutto vista dagli occhi di chi viene da fuori e poi ci entra dentro. Del resto, il capoluogo partenopeo (provincia compresa) non è mai stato davvero razzista. Oggi lo si definirebbe persino assai inclusivo.

Di Juan Jesus e Francesco Acerbi si è detto molto, forse troppo. Senza, però, dire sul serio nulla. È tipico del pallone giocato. È bastato rimettere “play” al giocattolo e i difensori sono tornati a essere delle figurine da incollare alla Playstation. Successe anche con Maurizio Sarri ai tempi della sua intoccabilità. Esisteva persino il “Sarrismo”. L’allenatore toscano definì “frocio” e “finocchio” il collega Roberto Mancini durante un diverbio a bordocampo. Napoli-Inter, tanto per cambiare. Non fu squalificato in campionato. Gli fu comminata un’ammenda di ventimila euro. Per la Procura gli “epiteti pesantemente insultanti” non erano discriminatori. Il futuro allenatore della Nazionale, essendo eterosessuale, circoscriveva sulla propria persona addirittura l’interpretazione. Diverso sarebbe stato se, ad esempio, gli fosse stato detto: ‘L’Inter è una squadra di froci’. Allora si che sarebbero scattati gli estremi per una lunga squalifica. È una storia vera. Targata appena 2016. Nella vita di tutti i giorni omofobie, sessismi, xenofobie, bullismi, razzismi, oggi sono finalmente etichettati con sigle e acronimi nuovi.

Sottolineando l’importanza di non ledere più la sensibilità altrui. Nemmeno per scherzo. Lo sport professionistico è ricchissimo e popolare per antonomasia. Che ruolo gioca, dunque? Perché Thuram e Dumfries non hanno sentito nulla? Preso almeno una posizione? Mario Rui e Lobotka avrebbero potuto appoggiare il loro compagno di squadra, già solo per sentimento? Al bar si dice che in fondo sono tutte manfrine da miliardari alla Maignan. Uscito dal campo a Udine dopo i cori di alcuni imbecilli. Un tormentone social in queste ore richiama ad hoc un carneade campione d’Europa, Darko Pancev (“il cobra” che “Mai dire gol” ribattezzò “ramarro”) con una “epigrafe” stentorea: “Importa sega a me: io domani compro Ferrari”.

«Non esiste un razzismo tra le culture, il vero razzismo è quello contro i poveri, e questo è acuito quando i poveri sono gli stranieri, i diversi da te. Si può combatterlo, insieme, ognuno con il proprio ruolo. Non bisogna mai minimizzare, il razzismo è sempre grave. Un bambino, quando nasce, non ha nessuna ragione per essere razzista, ma può diventarlo, a seconda di come i genitori, la scuola e le istituzioni gli spiegheranno le diversità. Un giorno un bambino in una scuola mi ha chiesto: “Quando scriverai Il razzismo spiegato ai genitori?”. Gli ho risposto: “È il tuo compito, quando sentirai tuo padre dire stupidaggini su neri, ebrei, musulmani, tu devi intervenire, perché così educherai tuo padre”. C’è bisogno di educazione, di una pedagogia dell’integrazione, che si parli ai bambini, che tutti si coinvolgano con le scuole, gli artisti, i cantanti, i musicisti, pittori, uomini politici, tutti.».

Quell’intellettuale franco-marocchino nel frattempo ha trasformato a vent’anni di distanza il romanzo in documentario. Grazie a Francesco Conversano e Nene Grignaffini, prodotti da Movie Movie e Rai Cinema.

Nelle settimane primaverili che ci scorteranno all’estate il “problema” tornerà ad essere il nuovo direttore o il prossimo coach in panchina. Noi (poveri) tifosi di chi saremo stranieri?

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