Entrambe le decisioni non identificano la fine dell’incontro bensì l’inizio. Ancelotti, come il pugile che gira al largo, ha studiato le contromosse. Altro che culo

Il possesso palla è come avere il centro del ring nella boxe: è determinante solo per chi non ne capisce
Due considerazioni notturne.
La prima riguarda gli “attacchi” ad Ancelotti rispetto alla partita dell’altro ieri (alla fine della quale, ricordiamolo agli smemorati, chi va a farsi la semifinale sono i “blancos”).
La seconda riguarda lo “scontro” tra Gabbia e Lukaku nell’azione del secondo gol della Roma.
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Partiamo dal principio.
Ancora una volta mi è toccato leggere di tutto sull’allenatore del Real Madrid: sarebbe stato annichilito dal City, anzi dal gioco e dalla produzione di palle gol del City; avrebbe pensato solo a difendersi; avrebbe, come al solito avuto culo nel passare il turno; e così via.
Ecco, leggendo e sentendo queste cose – che altro non sono se non il chiaro frutto di chi ha più o meno inconsciamente trasformato nel suo animo il gioco del calcio, le sue regole, i suoi contenuti – mi è venuto in mente il concetto del guadagnarsi il centro del ring nella boxe (di cui sono appassionato).
Sarà capitato a qualsiasi lettore di aver visto almeno un incontro di pugilato, e sarà capitato di osservare che durante l’incontro c’è, di regola, un pugile che combatte in sostanza stando fermo al centro del ring e l’altro che combatte girandogli intorno.
A prima vista, specie agli occhi del meno esperto, la sensazione che si ha è quella di captare che chi sta al centro del ring è il pugile più forte e potente (anche perché spesso costringe alle corde l’avversario), che da lì domina l’incontro, sembrando lui e solo lui a dettare i tempi degli scambi.
Ecco, a prima vista potrebbe essere così.
Ma, cari miei, prendersi il centro del ring non è aver vinto l’incontro, non identifica la fine dell’incontro.
Al contrario, ne determina e ne segna solo l’inizio.
In primis perché è il pugile che gira intorno a quello che sta al centro del ring a decidere di lasciarlo all’avversario.
Certo, lo fa perché è, magari, meno potente e nel corpo a corpo che ne scaturirebbe per contenderselo, e quindi avrebbe la peggio.
Ma il pugile in questione questo lo sa, ed il centro del ring lo lascia consapevolmente all’avversario più potente perché sa che il suo combattimento sarà caratterizzato da altri contenuti.
Sa che dovrà sfiancarsi in continue corse a ritroso o laterali per evitare i colpi, o da continue corse e movimenti verticali (avanti ed indietro) per portare i suoi, perché questo è ciò che la caratura dell’avversario lo costringe a fare.
Ma è tutto scientificamente studiato ed organizzato: il pugile che approccia all’incontro in questo modo, lo fa cedendo il passo alle riconosciute maggiori doti di potenza dell’avversario, ma così esaltando le sue doti di maggiore agilità, destrezza e repentinità nelle “uscite” e nelle “entrate” dall’asse di combattimento e dai colpi.
Il centro del ring è solo un mezzo rispetto al fine: chi se lo prende pensa di agevolarsi, e chi lo lascia pensa altrettanto.
Ma è lì che inizia l’incontro, che poi va riempito di tecnica, tattica e contenuti.
Ed infatti, spessissimo i pugili che sin dall’inizio si prendono il centro del ring, poi finiscono al tappeto.
Ecco, la stessa cosa deve pensarsi, rispetto al calcio, a chi mantiene il pallone durante tutta la partita.
Perché, appunto, lo si ricorda a chi di calcio non capisce un cazzo ed invece pensa di capire, prendersi il possesso del pallone non significa aver già vinto.
Il calcio non si identifica e non si esaurisce in questo.
Il possesso del pallone può essere giudicato come un mezzo rispetto al fine (che rimane vincere), ma non come fine in sé, perché ai fini del risultato finale non significa nulla.
Così come avviene nel pugilato quando il pugile lascia all’altro il centro del ring, nel calcio, quando evidentemente hai una squadra contro che è più forte di te nel prenderselo e nel gestirlo, allora la partita va organizzata lasciando il pallone agli altri ed impostando l’organizzazione della gara attraverso altri metodi tecnico/tattici.
E sono quelli che, magistralmente, ha usato Ancelotti.
Qui, però, per capirlo occorre avere occhi più attenti, più “tecnici”.
In partite del genere, chi lascia all’avversario il possesso del pallone deve innanzitutto essere bravo a coprire spazi e linee di passaggio agli avversari, per evitare di farsi male.
E poi deve essere bravo a colpire in quei pochi frangenti (per spazio e tempo) in cui il pallone l’avrà tra i piedi.
Ecco, prendete l’azione del gol del Real Madrid: qui sta tutta la maestria dell’impostazione e nell’organizzazione di gioco di Ancelotti.
Bellingham, in posizione da falso (e studiato) falso centravanti, riceve e stoppa magistralmente una palla a spiovere e la tiene fino a che il compagno che aggredisce lo spazio alla sua destra non è pronto a riceverlo a sua volta con giri e passi giusti.
Prima mossa tattica fenomenale: aver trasformato un fenomeno come Bellingham in “tuttocampista” che, tuttavia, seppure libero di spaziare per il campo (sono i compagni a dover scalare conseguentemente nelle giuste e studiate posizioni che lui lascia libere mentre si muove per il campo), in talune azioni partendo da prima punta riesce, così facendo, ad attirare su di sé il movimento della difesa per lasciare lo spazio dietro di lui a sua volta libero per l’aggressione dei compagni che lo vanno ad attaccare (spesso le due ali fenomenali che il Real Madrid ha).
E’ esattamente quello che succede nell’azione del gol, perché i tre compagni interessati all’azione (Vinicius, Rodrygo e l’esterno basso di destra) fanno quello che devono fare per effetto della organizzata e studiata fase di gioco in questione: i) l’esterno basso aggredisce lo spazio che Bellingham gli costruisce grazie al fatto che si porta al raddoppio gli avversari mentre gestisce il pallone; ii) a quel punto, Vinicius e Rodrygo scattano nello spazio dividendosi simmetricamente l’area di rigore: il primo per prendersi il pallone imbucato dal compagno, il secondo per andare a chiudere l’azione da classico “quinto”.
Altra strepitosa mossa tattica di Ancelotti, che si chiude in fase di non possesso con due linee difensive (strette e corte) a 4 e 5 (lasciando, appunto, Bellingham libero di andare a dettare tempi del pressing in uscita del City) poi pronte, una volta riconquistato il pallone (in quei pochi attimi in cui il Real Madrid ce lo avrà tra i piedi), a “rompersi” e ad allargarsi con le due frecce madrilene che vanno nello spazio a chiamare palloni e possibili giocate dei compagni.
Secondo il dettame di Cruijff insomma: quando la palla ce l’hanno gli altri, stringi il campo; quando ce l’hai tu, allarga il campo.
Ecco: vi sembra che tutto questo sia il prodotto della fortuna? Di giocatori che si auto gestiscono come ai giardinetti?
Ebbene, se ritenete di si, allora il vostro parere calcistico conta come i bastoni con la briscola a denari.
Al contrario, invece, è il frutto di una impostazione tattica (lasciare agli avversari il pallone, e cioè il centro del ring, perché non è li che si vincerà la partita) e di una organizzazione tattica (i movimenti descritti sopra) di un maestro del calcio.
Che non a caso allena la squadra più titolata del mondo (perché, per fortuna, ancora esiste il rapporto causa/effetto).
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La seconda considerazione notturna, dicevo, è lo scontro tra Gabbia e Lukaku nell’azione del secondo gol della Roma.
Ecco, qui l’analisi lascia da parte la tattica, la visibilità dell’organizzazione di gioco, e quant’altro, e forse nemmeno bisognerebbe parlarne.
Ma, a ben guardare, la partita è tutta lì.
Gabbia che prova ad andare duro al contatto spalla-spalla contro Lukaku, e poi finisce a terra a pelle d’orso (mentre quello va a far fare gol al compagno) mi ha riportato alla mente quella fantastica scena del film (capolavoro) “Borotalco” di Carlo Verdone, quando il maestro Mario Brega racconta la fine che fanno quei due che provano ad importunarlo (quei due di passaggio, insomma).
Ecco, mi immagino che negli spogliatoi qualcuno abbia chiesto a Lukaku se si fosse accorto che in quell’azione avevano provato a disturbarlo (anzi: a fare i duri con lui spalla contro spalla) e che lui, ormai romanizzatosi, abbia risposto in quel modo, alla Mario Brega.